sabato, 20 Aprile, 2024
Cronache marziane

Lungo viaggio dentro la giustizia – III

Mentre è  ancora viva la polemica suscitata dal mio intervento sullo schema di nuovo Codice dei contratti pubblici, ho deciso di non accogliere l’invito di Kurt il marziano ad essere più prudente nel dare le valutazioni che settimanalmente offro all’attenzione dei lettori.

L’Extraterrestre infatti ha ben appreso la lezione secondo cui, almeno in Italia, è meglio ridurre al minimo le critiche verso i poteri costituiti, se non se ne vogliono trarre spiacevoli conseguenze sul piano personale e poco è servita –  per fargli cambiare idea – la mia secca risposta negativa al suo invito di vagliare con più attenzione i pro e i  contro del mio atteggiamento da Lui definito addirittura “impertinente”!

Nel corso della discussione che ne è scaturita, ho voluto ricordare a Kurt che ormai il problema della giustizia, in Italia, ha raggiunto un carico di disfunzioni talmente insopportabile da spingere i normali cittadini (e non solo delinquenti) a ritenere che meglio sarebbe farsi giustizia con le proprie mani.

È contro questa diffusa opinione che occorre lottare e l’unico modo per farlo non può che consistere nel restituire al “servizio giustizia” quel minimo di efficienza che torni finalmente a farlo considerare – a seconda delle fattispecie – efficace strumento di risoluzione delle controversie, oppure corretta manifestazione della potestà punitiva dello Stato.

Metodologicamente, ho deciso di prendere come punto di partenza la prima di tali fattispecie: quella che riguarda le liti fra privati, correntemente indicata come “giustizia civile”.

Ecco, la giustizia civile è ormai in uno stato comatoso, sia per i tempi che per i modi lungo i quali si esprime; la pandemia ancora in atto ha poi accelerato il coma perché ha tolto alla maggior parte dei processi civili la loro caratteristica fondamentale: quella del confronto in udienza – davanti ad un giudice fisicamente presente – fra i litiganti e i loro difensori.

La prima conseguenza delle misure adottate per contenere i contagi ha infatti ridotto il lavoro del giudice alla mera lettura delle contrapposte citazioni e delle successive note d’udienza: ma cosa accade quando il giudice cui quegli atti pervengono – monocratico o collegiale che sia – riduce il proprio lavoro ad una frettolosa lettura di quegli scritti e ad un ancor più frettoloso esame delle prove allegate a quegli scritti?

Tecnicamente la materia è disciplinata dagli articoli 191 e seguenti del Codice di Procedura Civile (intitolata, in una lingua incomprensibile ai più, “Dell’istruzione probatoria”) e riguarda essenzialmente scritture private o documenti contenuti in pubblici registri; ma cosa avviene se colui, nei cui confronti una tale prova è prodotta, la disconosce? Avviene (o meglio dovrebbe avvenire) che la parte che intende avvalersi della scrittura disconosciuta ne chiederà la verificazione.

Qui può nascere però la prima disfunzione, scaturente dall’effettiva attenzione che il giudice voglia porre al valore del disconoscimento, rispetto a quello della verificazione: se il giudice è attento utilizzerà la propria discrezionalità, cancellando ogni possibilità di abuso del diritto da parte dell’uno  o dell’altro contendente; se invece non lo è, utilizzerà malamente il proprio potere istruttorio e arriverà ad una decisione che verrà recepita da entrambe le parti (e non solo da quella soccombente) come una manifestazione degradata e degradante del potere conferito i giudici dall’ordinamento entro il quale questi ultimi sono chiamati ad esercitare la loro giurisdizione.

Mi dice il Marziano (che utilizza questa sua vacanza sul nostro pianeta per percorrerlo in lungo e in largo) che vicende come quella appena descritta accadono solo in Italia, perché ormai anche i Paesi in via di sviluppo ispirano la loro giustizia al regime di Common Law, ove la discrezionalità giudiziaria è quasi completamente assorbita dal “principio del precedente” (tecnicamente indicato come “stare decisis”); Egli mi suggerisce però di non provare nemmeno a proporre l’introduzione di un tale principio nel nostro sistema giudiziario, perché la rigidità che lo contraddistingue rende una simile prospettiva addirittura fantascientifica.

Io però voglio utilizzare la mia impertinenza per proporlo comunque: in tempi di caduta delle certezze, quale è il nostro, non si sa mai cosa potrebbe accadere!

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