Non è la prima volta che il mio amico Kurt mostra curiosità verso fatti e fenomeni giuridici che gli addetti ai lavori descrivono con parole oscure anche per la maggioranza di coloro che si trovano a fronteggiarli; stavolta è accaduto mentre leggeva un paio di sentenze della Corte di Cassazione che – a fronte della medesima fattispecie – offrivano soluzioni esattamente opposte, l’una rispetto all’altra.
Ma così la certezza del diritto va a farsi benedire! Ha esclamato il Marziano, mostrandosi quasi scandalizzato dell’accaduto e le sue rimostranze si sono alzate di tono quando ho tentato di spiegargli che simili contraddizioni mandano in crisi innanzitutto quella che, tecnicamente, è indicata come la funzione nomofilattica della Corte.
Così ho dovuto faticare non poco per ad illustrargli in cosa consista la nomofilachia: parola oscura derivante dal greco antico – che testualmente significa “tutela delle leggi” – per indicare il principio secondo cui ad una corte suprema, come la Cassazione in Italia, si attribuisca la responsabilità di garantire l’uniformità nell’interpretazione e nell’applicazione delle leggi vigenti nel sistema giuridico di riferimento.
Il ruolo della Corte di Cassazione italiana dovrebbe essere cruciale in questo senso, perché finalizzato a fornire le massime e le decisioni vincolanti che guidano quelle di tutti gli altri tribunali del Paese: negli ultimi anni, tuttavia, si sono moltiplicati i segnali di sostanziale incapacità della Cassazione di mantenere quell’uniformità di interpretazione che è la stessa ragion d’essere di quella Corte come giudice di ultimo grado del nostro sistema processuale.
La dottrina ha tempestivamente segnalato il fenomeno (v., per tutti, Sassani B., La deriva della Cassazione e il silenzio dei chierici, in Rivista di Diritto Processuale, 2019, 74 e ss.), ma la pubblicistica generalista ha continuato ad ignorarlo, anche per evitare di essere accusata – come spesso accade in simili casi – di delegittimare l’operato dei giudici.
Tuttavia questa tendenza a tradire la funzione nomofilattica si è venuta, via via, ad ingrossare, fino a suscitare l’attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale le oscillazioni della giurisprudenza e la conseguente imprevedibilità e arbitrarietà delle decisioni potrebbero addirittura condurre alla violazione di quel principio di legalità a tutela del quale la funzione nomofilattica è stata attribuita alla Cassazione (in tal senso, v. Corte Edu, Belvedere alberghiera Srl c. Italia, nonché Carbonara e Ventura c. Italia, 30 maggio 2000).
Diverse ragioni stanno alla base della richiamata incapacità; è certo però che – se quella tendenza non andasse ad invertirsi – dovremo prima o poi interrogarci sulla opportunità di sostituire – con il vincolo dello “Stare Decisis”, mutuandolo dall’esperienza del Regno Unito – la discrezionalità di cui attualmente gode il nostro Giudice nazionale.
Il Marziano, a quel punto, ha ritenuto utile farmi osservare che mai e poi mai la corporazione dei magistrati italiani potrebbe accettare una soluzione di un tal genere e mi ha chiesto – a quel punto – di illustrargli almeno le cause della situazione che si è venuta a creare, vulnerando quello che io stesso gli ho indicato come il valore della certezza del diritto.
In primo luogo – Gli ho ribadito – si verificano casi, sempre più numerosi, in cui la Cassazione – pur in presenza di questioni piuttosto semplici – ha comunque emesso sentenze che sembrano contraddire le sue precedenti interpretazioni della legge, causando confusione e incertezza fra gli operatori, spiegabili – se non propriamente giustificabili – solamente in presenza di fattispecie assai più complesse.
In secondo luogo, il volume di cause che la Corte è chiamata a decidere è troppo ampio rispetto alle risorse umane disponibili: il che mette ogni giorno più a rischio la qualità delle decisioni e, quindi, la coerenza manifestata dalla stessa Cassazione nell’interpretazione delle leggi.
Ma il profilo più delicato resta quello relativo alle decisioni su controversie in esito delle quali sono state sollevate domande sulla trasparenza e l’imparzialità della Corte: qui è finora mancato – diciamolo con imbarazzante chiarezza – ogni minimo accenno d’intervento del Consiglio Superiore della Magistratura, quale titolare della potestà disciplinare cui ogni magistrato è (o, almeno, dovrebbe essere) sottoposto.
Una tale assenza di attenzione verso le conseguenze disciplinari di decisioni tra loro contrastanti ha fatto sì che anche la Corte di Cassazione abbia assunto – al pari di alcuni giudici di merito – un ruolo eccessivamente attivista, andando oltre il proprio compito di interpretare le leggi ed entrando nel territorio della loro creazione: un territorio che non Le è proprio.
Kurt mi ha allora domandato se può esserci qualche soluzione per affrontare questa crisi di credibilità di quella Corte; ma la complessità della questione mi ha imposto di rispondergli che nessuno, tranne i maghi delle favole, ha la bacchetta magica.
La crisi di nomofilachia che affligge la nostra Corte di Cassazione è però questione che merita attenzione e riflessione approfondita ed è fondamentale che venga affrontata in modo da rafforzare la fiducia degli operatori e degli utenti nel nostro sistema processuale.
Per ottenere questo risultato, occorrerebbe innanzitutto un clima di collaborazione fra potere politico e potere giudiziario: cioè esattamente l’inverso di quello a fronte del quale oggi ci troviamo.
Questo vuole anche significare che siamo condannati ad assistere impotenti alle negative conseguenze del declino nei rapporti fra poteri pubblici, almeno fino a quando il Parlamento – con uno scatto d’orgoglio – non deciderà di esercitare con forza le sue prerogative nei confronti del potere giudiziario.
Fino ad allora la crisi della nomofilachia sarà inarrestabile, fino a diventare valanga.