I rialzi dei tassi decisi dalle Banche centrali, l’impatto sulla crescita, i rischi dovuti alle incertezze sul piano geopolitico. Su questi temi abbiamo intervistato il Prof. Ubaldo Livolsi, banchiere ed advisor, esperto internazionale dei mercati finanziari.
Prof. Livolsi, la Fed alza i tassi dello 0,75%, terza stretta consecutiva per domare l’inflazione. E Powell avverte: non è finita. Il Presidente della Fed Jerome Powell ha ribadito il messaggio “hawkish” di Jackson Hole: le strette proseguiranno fino a quando non ci saranno “prove convincenti” sul calo dell’inflazione. Non si rischia una stagnazione con i tassi così alti?
La decisione della Fed ribadisce la determinazione ad assecondare il messaggio “hawkish” (“falco”, n.d.r.) fatto dal suo presidente Powell al meeting di Jackson Hole di fine agosto di fronte agli economisti e i banchieri. Il costo del denaro negli Stati Uniti adesso si attesta a un livello compreso fra il 3 e il 3,25%, ai massimi dal 2008. La Federal Reserve è fortemente impegnata a riportare l’inflazione all’obiettivo del 2%, che ad agosto ha toccato l’8,3% su base annua. “La stabilità dei prezzi – ha detto Powell – è nostra responsabilità, senza di questa l’economia non funziona”. Se è vero che la strategia è quella di applicare la scelta canonica, va tuttavia considerato che l’inflazione oltreoceano è diversa da quella in Europa: la nostra è determinata dall’aumento dei costi dell’energia e delle materie prima, quella Usa da un eccesso della domanda, che per la Fed deve essere fermata a tutti costi. Il Pil statunitense però sale di poco e gli effetti sulla crescita si fanno sentire.
Le previsioni sul Pil sono scese ad appena il +0,2, contro la precedente dell’1,7%. Nel 2023 si stima +1,2%, nel 2024 +1,7% e nel 2025 +1,8%. Come lei ricorda, ci dovrebbero essere altri rialzi, decisi di volta in volta a seconda dei dati economici. La Bce dovrà di conseguenza aumentare anch’essa il costo del denaro. L’Europa non può oggi permettersi un dollaro così forte ed è quindi ragionevole supporre che anche l’istituto presieduto da Christine Lagarde agirà in questa direzione. Certo il rincaro continuo del costo del denaro non potrà durare a lungo, ma il dato dell’inflazione è molto grave e la situazione difficile da gestire per via dell’incertezza legata alle conseguenze della guerra in Ucraina.
Secondo lei, perché la Bank of Japan, invece, ha deciso di confermare la politica monetaria ultra-espansiva, rimanendo impegnata a sostenere l’economia anche in presenza di un aumento dell’inflazione. Una scelta in controtendenza rispetto al resto del mondo?
La Boj, la Banca del Giappone, ha mantenuto i tassi di interesse a -0,1%. Il governatore Haruhiko Kuroda ha sostenuto che lascerà invariata la sua forward guidance per i prossimi due o tre anni. Ciò si spiega col fatto che il Sol Levante non ha problemi di inflazione come gli Usa o l’Eurozona. Ad agosto i prezzi sono aumentati del 2,8% e, anche se si tratta del ritmo più rapido in quasi otto anni, l’innalzamento è comunque più blando rispetto a quello di altre aree. L’inflazione sta salendo a causa dell’impennata dei prezzi delle materie prime e dell’indebolimento dello yen, ma sembra sotto controllo. Infatti, nonostante la domanda resti debole, la Boj ha fatto sapere che prevede che l’inflazione tornerà presto sotto il 2% e continuerà a sostenere l’economia con misure di allentamento monetario finché non si riprenderà del tutto dalla pandemia. L’impatto sullo yen non si è fatto attendere e il Giappone è intervenuto unilateralmente sul mercato valutario per la prima volta dal 1998. Va detto che lo yen è stata la valuta più in difficoltà quest’anno, perdendo oltre il 20% del suo valore rispetto al dollaro. Dobbiamo ricordare la situazione macroeconomica del Paese del lontano oriente, che comunque esporta le sue eccellenze produttive, ha un debito molto alto, ma anche livelli di risparmio elevati. Questo quadro dimostra che quella del Sole Levante è un’economia per così dire autoreferenziale e che le due grandi potenze economiche, le cui scelte influenzano il pianeta, rimangono Stati Uniti e Cina.
Come si comporteranno Bce e Fed non appena inizierà a mordere la recessione e le imprese inizieranno a licenziare?
Il tasso di disoccupazione in Usa è molto più basso di quello europeo; quindi, la Fed può permettersi di “sacrificare” parte di forza lavoro. Lo ha ricordato lo stesso Powell: “Mi piacerebbe una strada indolore per lasciarci l’inflazione alle spalle, ma non c’è”. L’inflazione Usa continua a rimanere elevata a causa degli squilibri della domanda e dell’offerta legati alla pandemia, all’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia e alle pressioni più ampie sui prezzi. La guerra e gli eventi correlati stanno drammaticamente pesando sull’attività economica globale. In particolare, vedo due rischi. Il primo è che la Bce si metta – in ritardo come fatto nel caso dei rialzi dei tassi – a emulare gli Usa, ma l’Europa che ha livelli di disoccupazione maggiori non può permettersi di mettere ulteriormente in crisi le nostre realtà produttive, già alle prese con il costo dell’energia che è schizzato a livelli record. Se troppe persone perderanno il lavoro, ci troveremo di fronte a una bomba sociale lì lì per esplodere. Il secondo mio motivo di preoccupazione è che la situazione è troppo incerta per via del conflitto alle porte dell’Europa. Impossibile sapere se ci sarà la recessione, quanto durerà e come sarà l’economia tra un anno.