venerdì, 29 Marzo, 2024
Cronache marziane

Lungo viaggio dentro la giustizia – IV

I lampi e i tuoni che hanno scosso l’Italia centrale nella notte fra venerdì e sabato scorso, mi hanno costretto a riparare in biblioteca perché era impossibile dormire in barba a quei rumori; ho potuto così constatare che anche Kurt il marziano era stato disturbato da un tal frastuono e – probabilmente per prepararsi alle prossime schermaglie  fra noi due a proposito della giustizia civile – si era circondato di un bel numero di sentenze dei più importanti Tribunali italiani, il cui minimo comune denominatore era rappresentato dalla violazione, più o meno palese, dell’obbligo di motivare le proprie decisioni da parte del magistrato (o del collegio di magistrati) investito di ogni singola questione.

Cosa dunque può fare un cittadino – mi ha chiesto Kurt – quando il giudice rifiuta di dare evidenza delle ragioni del proprio operato?

La risposta è solo apparentemente agevole, perché un tale rifiuto viene a concretare innanzitutto la violazione di un preciso obbligo sancito dall’articolo 111 della Costituzione, a termini del quale tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono necessariamente essere motivati: almeno in teoria.

Nella pratica accade invece abbastanza di frequente che il giudice adempia con una certa frettolosità (per non dir peggio) ad un simile obbligo, usando argomenti tautologici in ordine alle ragioni che ha posto alla base della propria decisione, o – peggio ancora – ricorrendo alla cosiddetta “motivazione apparente “: quella, per intenderci, in esito della cui lettura è praticamente impossibile comprendere le ragioni logiche e  giuridiche che possano averlo indotto a stabilire di chi siano le ragioni e di chi i torti.

Con questa premessa, ho mostrato al Marziano un paio di manuali di diritto processuale civile  – che richiamano gli articoli 132 e 134 del Codice del rito – ove si spiega come l’esposizione dei motivi, in fatto e in diritto, di ogni decisione non riguardi soltanto le sentenze, ma si estenda anche alle ordinanze; solo per i decreti (in forza di quanto dispone l’articolo 135 dello stesso Codice) il giudice è esonerato dal motivare le proprie decisioni, ma questa scelta legislativa è ragionevole perché il decreto non è uno strumento finalizzato a decidere la controversia, ma semplicemente un mezzo accidentale per meglio indirizzarla verso la soluzione finale della controversia stessa.

Quelli appena esposti – ho soggiunto – potrebbero sembrare principi assolutamente ovvii, ma nella realtà processuale vengono sempre più spesso distorti e la Corte di cassazione – che dovrebbe porre rimedio a questa incoerenza,- tende invece a guardarsene bene, preferendo ricercare qualche minimo errore nella redazione del ricorso presentato dall’avvocato, anziché l’errore ben più macroscopico in cui il precedente giudice è incorso, cosa fare in questi ultimi casi? Mi ha domandato il Marziano.

Sempre ragionando in linea teorica, gli ho risposto che – almeno per i provvedimenti resi in via istruttoria – il codice del rito permette alla Parte che vi abbia interesse di chiedere la modifica o la revoca dell’ordinanza, ottenendo così un rimedio alle eventuali carenze di motivazione che la affliggono: il problema però resta irrisolto se, nonostante la parte abbia fatto istanza per la modifica una revoca di quell’ordinanza, chiedendo espressamente di integrarla con la motivazione, il giudice si limiti a confermare il proprio provvedimento senza effettivamente motivarlo, anzi giungendo fino al punto di irridere la Parte che ha osato metterne in discussione la non discutibile autorità.

Sembrerebbe a questo punto che non ci sia più nulla da fare, invece non è così: perché se il rifiuto di dare motivazione è sfacciatamente volontario, si potrebbe anche ipotizzare come un simile comportamento possa avere rilevanza sia sotto il profilo disciplinare che sotto quello di una violazione penalmente rilevante, richiamando le disposizioni dell’articolo 328 del Codice Penale che prevede come reato il cosiddetto “rifiuto di atti d’ufficio”.

Stando infatti al tenore del primo comma di quell’articolo “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o…(Omissis)… deve essere compiuto senza ritardo è punito con la reclusione da sei mesi a due anni”.

Kurt però, a quel punto, è scoppiato in una sonora risata e mi ha chiesto – sempre ridendo – se credevo seriamente che le patrie galere potrebbero un giorno ospitare magistrati rei di aver rifiutato di stendere motivazioni che avessero effettivamente illustrato le ragioni del loro operato.

Non condividendo affatto l’ilarità del Marziano, gli ho risposto seccamente che non potevo non crederci, altrimenti avrei anche dovuto veder travolto tutto il sistema del giusto processo, disciplinato non solo dalla legge italiana, ma anche dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Rendendomi però conto di aver così esaurito ogni arma polemica, ho lentamente abbandonato la biblioteca e quello che mi ha dato più fastidio è stato dover sentire Kurt che continuava a sogghignare.

Possibile – mi sono domandato, prima di riprender sonno – che i nostri giudici civili somiglino davvero ai mandarini cinesi della dinastia Ming?

A leggere certi provvedimenti giudiziali, purtroppo sembra proprio di sì!

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