mercoledì, 24 Aprile, 2024
Il silenzio delle parole

La Sinistra e i tempi bui del ‘900

Anni ’30 in Italia, sullo sfondo la tragedia del “secolo breve”.

Molti giovani comunisti libertari fuggono sottraendosi alla repressione fascista, destinazione Mosca, ambienti del Komintern, Internazionale Comunista, non certo fra i più adatti a uomini liberi e indomiti. Molti fra loro finiscono in Siberia, mentre in Italia i nostri “detenuti politici” soggiornano al confino a Ponza. Fra i tanti, a me vicino per formazione e riferimento politico, Giorgio Amendola e la moglie Germaine.

1939, nel vivo della lotta al nazifascismo, male supremo, Bertold Brecht scrive uno dei suoi versi immortali, sintesi efficace delle tragedie di quegli anni: “Voi che sarete emersi dai gorghi dove fummo travolti pensate quando parlate delle nostre debolezze anche ai tempi bui cui voi siete scampati”.

Anni ’40, in un contesto radicalizzato di scontro fra nazifascismo e mondo libero inizia la seconda guerra mondiale. Da lì a poco l’attacco nipponico a Pearl Harbor e l’apertura tedesca del fronte orientale segnerà le sorti del conflitto. Due errori di prospettiva che forse salveranno per anni l’Europa e l’Asia da feroci egemonie totalitarie.

Negli anni tormentati del dopoguerra, nasce la disputa civile e politica fra Albert Camus e Jean-Paul Sartre. I due grandi intellettuali di sinistra, legati fra loro da lunga amicizia, nemici dichiarati di Hitler e Mussolini, diversamente critici nei confronti dell’ideologia marxista e dello stalinismo al potere, si scontrano in Francia su metodi e sistema del potere sovietico, Camus avversario irriducibile, Sartre a lungo accondiscendente. La risonanza è internazionale.

Palmiro Togliatti, esponente di spicco del Komintern. In quegli anni ha condiviso onori e scelleratezze dello stalinismo. Nel maggio del 1956, appena chiuso il sipario sul XX Congresso del PCUS, concede un’intervista a Davide Lajolo per la rivista Nuovi Argomenti.

Questi, a intervista conclusa, propone, nel suo abituale stile provocatorio, una domanda diretta e coraggiosa. Le parole sono approssimative da un punto di vista testuale, non sono riuscito a rintracciare il testo, ma le ricordo con precisione nel contenuto: “I dirigenti polacchi processati da Stalin venivano condannati ingiustamente, tu sapevi della loro innocenza e avevi elementi di prova scriminanti. Cosa avrebbe fatto Antonio Gramsci al tuo posto?”. La risposta del leader comunista è pacata ma scabra, come nella personalità dell’uomo: “Antonio Gramsci avrebbe tentato di salvarli e sarebbe morto, io sono vivo, combatto per l’emancipazione del proletariato e sono il segretario generale del più grande partito comunista occidentale”.

Anno 1972, avevo finito di frequentare il liceo a Palermo. Il mio professore privato di matematica mi propone l’iscrizione al PCI in concorrenza all’amatissimo professore di Storia e Filosofia, di appartenenza socialista, che, considerandomi troppo moderato, durante l’anno avevo manifestato entusiasmo per il pensiero del Cattaneo, mi aveva introdotto allo studio di Antonio Gramsci, quale presunto elemento di apertura intellettuale.

Conoscevo già il rapporto Kruscev del 1956 e avevo letto le memorie autobiografiche del leader sovietico sugli anni del potere a Mosca con Stalin, opposi dunque la mia ragionevole considerazione: “Si ma i rapporti con l’URSS?”.

La risposta fu secca: “Siamo in Italia, anzi in Sicilia e dei fatti nostri dobbiamo occuparci”.

Forse la figura elegante e rassicurante di Enrico Berlinguer, giocò la sua parte.

“Siamo conservatori e rivoluzionari” avrebbe affermato il nuovo segretario comunista qualche tempo dopo.

Sollecitato dai tanti motivi che in quegli anni spingevano molti giovani verso il PCI, essenzialmente forza, organizzazione, radicalismo politico, mi iscrissi al partito. Ognuno di noi aveva il suo motivo specifico per quella scelta: il mio era la lotta senza quartiere al sistema politico-mafioso in Sicilia e a Roma, sicuramente pesavano per me antefatti familiari.

Poco dopo mi trasferii a Torino per frequentare l’Università, dove vissi, protetto dalla federazione PCI più importante d’Italia per concentrazione di classe operaia nel Paese, la mia formazione politica. Dimorai per lunghi anni in centro storico a pochi passi da quella che era stata l’abitazione di Antonio Gramsci, prima del suo arresto nel ‘26.

Pochi decenni prima Giorgio Amendola, di formazione liberale, dopo aver rifiutato la tessera di Giustizia e Libertà, aveva aperto alla scelta di aderire al PCd’I. Il suo motivo specifico di allora era stato l’uccisione per mano fascista del padre Sen. Giovanni Amendola (aprile 1926).

La scelta comunista fu quindi, per alcune generazioni, la strada di molti giovani italiani che misero da parte le questioni intellettuali e morali della lotta per la libertà coniugata alla giustizia sociale, e anch’io, in quegli ormai lontani anni ’70, scelsi la lotta più strutturata e forte contro comuni terribili nemici: fascismo; capitalismo, nella crudeltà delle sue aberrazioni; condizione operaia nelle fabbriche e nell’emigrazione meridionale al nord; guerra del Vietnam; delinquenza organizzata alleata di una politica degenerata (il “terzo livello” di Cosa Nostra cercato da Falcone e Borsellino che nei miei libri lo ribattezzai “primo livello”); resistenze alla riforma agraria e violenze contro i braccianti; barbarie dello sviluppo urbanistico delle grandi città, sicuramente al sud.

Per generazioni combattemmo a fianco del Movimento Operaio, per la giustizia, contro il terrorismo rosso e nero, facemmo politica dentro le regole democratiche e costituzionali ma nella logica di grande forza politica organizzata, capace di lottare con una prospettiva vincente; commettemmo l’errore di mettere in secondo piano i rapporti impropri con l’URSS, pur operando dentro la prospettiva europea e di un paese organizzato militarmente dentro la NATO.

In quegli anni, importanti erano stati i fermenti democratici e liberali in Italia, dalla resistenza in poi; solo i socialisti si erano attardati nel giudizio allo stalinismo prima dei fatti d’Ungheria del 1956; Giuseppe Saragat fu il più lucido analista politico e credo sia giunto il tempo di rileggere e rivalutare la sua opera; ma come cultura fu il Partito d’Azione l’avanguardia delle lotte per la libertà, per la pace e per la futura Europa, fondamentale il manifesto di Ventotene. Un’elitè forte culturalmente ma ininfluente e sconosciuta a livello popolare. Una formazione politica alla quale tanto dobbiamo per il futuro democratico e per la civiltà giuridica dell’Italia e dell’Europa.

Nel Partito d’Azione confluirono il movimento Giustizia e Libertà fondato da Carlo Rosselli, i circoli liberal-socialisti di Guido Calogero e Aldo Capitini, grandi repubblicani come come Ugo La Malfa, e poi Luigi Salvatorelli e Adolfo Omodeo, Emilio Lussu, Augusto Monti e Guido Dorso, Ernesto Rossi, Vittorio Foa, Altiero Spinelli e Pietro Calamandrei. Uomini e gruppi che avevano come riferimento Ferruccio Parri, capo pluridecorato della Resistenza, che sarebbe divenuto Presidente del Consiglio, nell’immediato dopoguerra, nel giugno del 1945.

Un flash-back per me significativo a chiusura di questa breve riflessione che, se guarda alla storia, ha anche natura molto personale.

Il 21 agosto 1964 moriva Palmiro Togliatti, segretario generale del PCI. Il leader comunista e Nilde Jotti trascorrevano le vacanze estive a Yalta, sul Mar d’Azov, in territorio ucraino, insieme ad altri dirigenti dell’epoca, fra questi Luciano Lama.

Nelle prime ore pomeridiane del giorno successivo un professore, uno zio a me caro, grande studioso dell’azionismo, era alla scrivania nel suo studio palermitano in Via Antonio Veneziano. Davanti a lui gli studenti che abitualmente affollavano le sue lezioni private del pomeriggio. Io avevo 11 anni ma ero curiosissimo dei fatti dei grandi, e mi trovavo lì presente in seconda fila.

Il generoso pedagogo di studenti non sempre o necessariamente paganti, sfogliava L’Ora, quotidiano comunista palermitano del pomeriggio. D’improvviso alzò lo sguardo verso di noi e a fil di voce sussurrò: “È morto un grand’uomo!”.

Tutti tacemmo, forse non consapevoli del momento, certamente ignari che un uomo di pensiero libero stesse celebrando con rispetto e ammirazione la morte di uno dei grandi protagonisti del comunismo internazionale.

Questo fu per me, e resta oggi, pur fra rapide suggestioni affidate alla memoria, il profilo di una Sinistra italiana che non seppe avere un’altra storia e che oggi più che mai fatica a trovarla.

Rimane tuttavia in eredità una grande cultura nazionale che ha illuminato le esperienze più alte della politica italiana, dal viaggio difficile dei primi governi repubblicani e di Centrosinistra al cantiere rigoglioso del PSI, seconda parte anni ’70 e ’80, segnato da un rovinoso sistema di potere partitocratico.

Oggi questa cultura liberale, socialista e azionista è forte e radicata nel mondo accademico e nel dibattito pubblico ma necessita di un partito politico strutturato, fenomeno sempre complesso ma imprescindibile per un’ambiziosa attività di governo, in esso occorrerà forgiare la schiena dorsale di una nuova Repubblica, le nuove classi dirigenti, i progetti riformatori della futura Italia in Europa.

 

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