venerdì, 19 Aprile, 2024
Il Cittadino

Lo scoglio fiscale

Con un certo compiacimento viene fatto notare a Giorgia Meloni – con tanto di videoclip delle sue dichiarazioni del quinquennio passato – che un conto è governare, altra cosa è fare l’opposizione.

L’argomento più facile e più ovvio, per chi voglia contestare, è quello fiscale. Persino la inesistente opposizione di questo inizio di legislatura può agevolmente commentare che, una volta al governo, le accise sulla benzina, prima definite proprio dalla Meloni una vergogna da cancellare subito, sono state conservate con cura ed attenzione.

Ciò che l’opposizione (di qualsiasi colore) in Italia tradizionalmente non fa, è di indicare una soluzione diversa rispetto alla scelta dell’esecutivo.

Così, a parte evidenziare l’incoerenza della Giorgia di opposizione rispetto alla Meloni di governo, non viene avanzata alcuna soluzione differente.

Vizio che si estende anche alle scelte concrete, quelle del “fare”, contestate con l’unica e ripetuta e vuota considerazione che l’opera in questione «non è una priorità», frase cretina solo apparentemente ammantata di cultura e saggezza e che riporta all’emergenza continua che in Italia impedisce qualsiasi programmazione e riforma reale.

Sul sistema fiscale, però, vedo oggettivamente una grande difficoltà dell’esecutivo attuale, probabilmente imbrigliato tra le ambizioni leghiste (e più moderatamente forziste) di riduzione tout-court del carico fiscale e l’attenzione dovuta al nostro sistema sociale, che sulle tasse si regge.

Proprio qualche giorno fa ho avuto l’occasione di parlare del sistema fiscale con un amico di sempre, Ninni Speranza, formatosi negli anni sessanta alla scuola di economia del Partito Repubblicano e poeta dialettale gustosissimo.

Al netto di un sardonico, e contemporaneamente affettuoso dileggio per alcuni amici comuni, per lui ormai personificazione stessa della sinistra, col rigore tipico del lamalfiamo mi ha sciorinato una serie di dati, invitandomi a verificarli su Italia Oggi. Non l’ho fatto; gli ho creduto sulla parola.

Il quadro che ne emerge è desolante. Il 49% dei residenti italiani (circa 29.800.000 su 60.400.000) non produrrebbero alcun reddito. Il 45% dei rimanenti produttori di reddito (quindi quasi 19 milioni di contribuenti) dichiarerebbe meno di 15 mila euro l’anno (con un carico fiscale, considerate anche le detrazioni di circa 158 euro l’anno). Altri 5.800.000 italiani dichiarano invece tra i 15 e i 20 mila euro lordi: in questo caso l’imposta media è poco meno di 2.000 euro annui. Soltanto il 12,28% di contribuenti – poco più di 5 milioni di soggetti – dichiara redditi da 35 mila euro in su (e nel totale italiano, soltanto lo 0,8% dei residenti guadagnerebbe più di 120.000 euro l’anno). In buona sostanza: il 90% dell’Irpef dovuta sarebbe versata da poco più di sei milioni di cittadini.

Dati che sembrano stridere con la realtà, ma che forse la esaltano: perché i dati sui redditi sono in netto contrasto con la realtà italiana che ha i più alti depositi bancari d’Europa (più di 10.000 miliardi di euro, secondo la Banca d’Italia) e col 75% di italiani proprietari di casa.

Stridono se i dati fiscali, che disegnano una popolazione per lo più povera, vengono presi per buoni e vengono analizzati fuori dal contesto sociale italiano; esaltano la realtà se si pensa ad una economia privata florida grazie all’evasione fiscale.

Fenomeno indubbio, ma contrastata soltanto con riferimento ai soggetti conosciuti. Quelli che evadono veramente le tasse e creano il vero distacco sono le miriadi di attività che non si riesce a fare emergere. Ma anche società nulla tenenti create ad arte per non pagare contributo ed imposte ai dipendenti, o anche solamente per determinare fatturati che non corrispondono a reali servizi o acquisti (le c.d. cartiere).

Qui c’è un duplice problema ideologico da superare: i lavoratori “al nero” si moltiplicano ogni giorno e non appartengono alla realtà imprenditoriale, che non può permettersi spese non detraibili e che non può rischiare sanzioni. Ma le persone che non consentono di essere “messe in regola” (perché si tratta di un secondo lavoro; o perché in disoccupazione o fruenti il “reddito”; o perché stranieri irregolari) sono veramente miriadi e si inseriscono perfettamente nella economia domestica non imprenditoriale: perché per pitturare la stanza del bambino devo ricorrere ad un’impresa, quando quei due operai comunali me la fanno per duecento euro più il costo della vernice, dopo il lavoro?

Anche il fisco necessita, quindi, di una vera riforma, non di semplici sgravi o condoni. Riforma che deve partire dalla semplificazione. Ma anche dal dare un valore al lavoro occasionale occasionale di studenti, babysitter per vacanze-lavoro e altro: tutte pratiche oggi sono sconosciute al fisco e che dovrebbero poter essere regolarizzate con semplicità, senza dover ricorrere a un professionista: con un costo ulteriore, che allontana.

Si dovrebbe poi creare un sistema perché l’erario percepisca il fenomeno del mancato versamento dell’Irpef a favore dei dipendenti mentre avviene, non solo a posteriori.

L’assioma dei lavoratori dipendenti che pagano sempre e comunque le tasse è vero, ma se il datore di lavoro le paga. Se ciò non avviene il lavoratore non ha conseguenze: l’imposta dovuta sul suo reddito è comunque pagata. L’impresa fallisce, il fisco calcola l’importo non versato e si insinua nel fallimento, ma quasi mai recupera il suo credito. Paga Pantalone.

Se aggiungete a tutto ciò la burocrazia richiesta anche per un semplice pagamento (moduli, F24, F23, codici) e gli oltre cento adempimenti annui pretesi dall’erario a carico dei contribuenti autonomi e il quadro è quasi completo. Quasi perché resiste pur sempre l’idea che alcune imposte sono autoreferenziali: servono solo per pagare gli stipendi a chi deve accertarli: l’imposta di registro, si diceva un tempo, dà meno proventi del costo complessivo degli Uffici del Registro.

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