Pressato dalle nuove emergenze scaturite dalla pandemia (e dall’Unione europea) il Parlamento italiano ha finalmente aperto gli occhi ed ha appena varato, all’interno del cosiddetto “decreto semplificazione” una serie di modifiche, peraltro solo di natura temporanea, al codice dei contratti pubblici, finalizzate a rendere più spedite le procedure per il varo di opere pubbliche. L’operazione “ponte di Genova” ha fatto comprendere, persino ai grillini, quanto disdicevole sia l’apparato burocratico che oggi governa la materia dei rapporti contrattuali tra pubblico e privati.
Occorre subito premettere: si tratta di ben poca cosa, sia per la natura intrinseca delle modifiche stesse, sia per il carattere, appunto, solo temporaneo che le caratterizzano.
Cambia poco rispetto alla mostruosa congerie di norme che un legislatore miope, prono alla demagogia imperante, ha varato negli anni scorsi, a partire dal 2006 e poi, con vari interventi aggiuntivi, sempre più astrusi, fino al 2019 e appunto fino a giovedì 10 settembre, quando il decreto semplificazione è stato definitivamente approvato.
Il dipendere da queste norme cervellotiche si è tradotto in tutti questi anni nella paralisi delle opere pubbliche, con ovvie negative ripercussioni sotto il profilo dell’occupazione, del Pil e della crescita.
Il tempo medio di realizzazione di un appalto, in Italia, secondo un recente report del centro studi Arel è di 4,4 anni, con punte di 16 anni per le grandi opere.
Nel 2019 per la verità c’era stato un tentativo di correzione, con il cosiddetto decreto “sblocca cantieri”. Ma l’effetto è risultato risibile, considerato che la legge è stata scritta così male da risultare incomprensibile e inattuabile nella pratica. In Italia così va.
Questo impianto schizofrenico ha creato tutta una serie di problemi. Nei Comuni i responsabili degli uffici, nella stragrande maggioranza dei casi, chiedono la consulenza dell’Anac, perché non riescono ad interpretare la norma. E perché vogliono comunque cautelarsi. In genere amministrativi, dirigenti, funzionari, chiunque venga nominato responsabile del provvedimento non si assume la responsabilità di prendere decisioni e di firmare, proprio perché la farraginosità della legge nasconde mille insidie. L’abuso di ufficio (se non addirittura altre fattispecie di reati ancor più gravi) è un incubo, sola la resistenza dei soliti giustizialisti pentastellati ha impedito al Parlamento di eliminare questa barbarie dal nostro ordinamento.
Il nostro paese, è indubbio, è stato ed è attraversato da una irresistibile predisposizione alla corruzione. Non bisogna scomodare lo scandalo della Banca romana di inizio ‘900 o lo scandalo delle banane, o ancora lo scandalo Giuffrè, il “banchiere di Dio”, o quello legato all’acquisto degli aerei Lokheed per rendersi conto che il tasso di malaffare nei rapporti pubblico-privati ha radici salde ed antiche. E che in qualche maniera lo Stato dovesse adottare contromisure per evitare ruberie era scontato. Ma che il legislatore dovesse inventarsi un codice apposito dei contratti pubblici (e all’interno di esso degli appalti) lastricato di paletti e di vincoli assurdi, scritto in maniera incomprensibile, con la creazione di neologismi criptici, in taluni passaggi persino confliggente con la lingua italiana e con la grammatica, questo non era assolutamente prevedibile. Assistiamo al trionfo del burocratese puro, un insulto al buon senso e soprattutto un cazzotto alla produttività.
Per avere consapevolezza di questo “mostro” (composto da ben 220 articoli) basta semplicemente rileggersi il Codice dei contratti pubblici e in particolare la sezione Appalti. Che si tratti di un gran pasticcio lo si capisce subito dal fatto che la governance del sistema è affidata a ben cinque enti: cabina di regia (il nome è tutto un programma), Anac, Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, Consiglio Superiore di lavori pubblici e Comitati tecnico-amministrativi presso il Provveditorati regionali. C’è da rabbrividire.
Ma è la terminologia che spaventa di più. Andatevi a spulciare gli articoli dove si parla di “amministrazioni aggiudicatrici” e “enti aggiudicatori” (il trionfo della confusione, non si capisce affatto la differenza tra le due figure), oppure il passaggio dove si tenta goffamente di spiegare per legge le nozioni di “soggetti aggiudicatori”, “altri soggetti aggiudicatari” e stazione appaltante. Follia allo stato puro.
E poi ancora: pianificazione, programmazione, progettazione, aggregazione di stazioni appaltanti (sic!), per arrivare alla sublimazione finale, la procedura di scelta (del vincente l’appalto): procedure aperte ristrette, partenariato per l’innovazione, procedure competitive con negoziazione, dialogo competitivo, procedure negoziate senza la previa pubblicazione di un bando di gara. E stendiamo un velo di pietoso silenzio sulle astruserie del cosiddetto “mercato elettronico”. È possibile che non esista un metodo per individuare, scrivendolo in lingua italiana, un percorso semplice per l’aggiudicazione degli appalti, che preveda la predeterminazione e i requisiti dei soggetti partecipanti per fasce, il divieto assoluto di subappalti (pena la perdita del contratto e il risarcimento del danno), e pene ancor più gravi per corrotti e corruttori? Un giornalista pratico della materia concentrerebbe tutto in una comprensibile paginetta. Altro che 220 articoli.