Una decina di anni fa, un mio carissimo amico e conterraneo, il validissimo avvocato Cesare Placanica, già Presidente della Camera Penale di Roma, mi costrinse a leggere una sentenza penale.
La lessi con fatica, non avvezzo alla prosa molto più burocratica rispetto alle sentenze civili, più raffinate; ma, soprattutto, con stupore crescente: perché scorgevo in essa la descrizione di comportamenti che mi erano noti e che, proprio per averli visti attuati da giovane, negli anni ‘70 e ‘80, nella mia Calabria, mi sembravano normali e perfettamente legali.
Magari con un dubbio sulla loro opportunità: ma era una perplessità, questa, legata al momento della lettura (2010), ma che probabilmente non avrei espresso trenta o quarant’anni prima, essendo quei comportamenti attuati in maniera palese da parte di persone sulla cui moralità nessuno – io men che mai – poteva dubitare.
Si trattava della sentenza Cuffaro, che Cesare Placanica mi aveva fatto leggere opportunamente per mettermi al corrente che situazioni relazionali (come quelle che in gioventù avevo visto compiere), pur non finalizzate alla commissione di un reato, potevano avere di per sé stesse una rilevanza penale per un “favor”, magari solamente implicito, all’organizzazione mafiosa.
Ecco. Totò Cuffaro è stato condannato per questo tipo di favoreggiamento; ma non per collusione o partecipazione sia solo esterna con la mafia.
Non si è mai sottratto al processo; si è spontaneamente presentato in carcere allorché la sua condanna è divenuta definitiva; l’ha scontata interamente, quattro anni e undici mesi di prigione vera, con grande disciplina e dignità. Dal giorno di Santa Lucia del 2015 ha rivisto la luce della Libertà ed è ritornato un uomo libero, sia pure con la residua interdizione dai pubblici uffici.
L’ho conosciuto e visto per la prima volta in vita mia lo scorso ottobre 2021, a Saint-Vincent.
Ne sono stato colpito per la grande dignità e serenità di cui parlava della sua esperienza processuale e carceraria; per la comprensione che mostrava di avere avuto delle ragioni della sua condanna e del cancro che rappresenta la mafia.
Ecco, se dovessi ricordare la suggestione avuta sentendolo parlare, dovrei riferire che mi era tornato in mente il sergente di colore difeso da Tom Cruise nel film Codice d’Onore, assolto dalle accuse più gravi rivolte nei confronti suoi e del caporale suo coimputato, che erano risultate infondate, che riceve comunque la condanna alla radiazione dai Marines; e che al suo sbigottito compagno che chiede “perché, perché”, non avendo capito la ragione della condanna, risponde: «Te lo spiego dopo» e si mette sull’attenti per salutare il giudice ed il suo difensore. Mostrando così di avere capito che si può sbagliare anche seguendo una prassi che fino ad allora era sembrata normale.
Ecco, Totò Cuffaro, ha capito; ha accettato il verdetto; ha scontato la pena interamente in carcere, senza sconti o privilegi. Non ha mai discusso la sua condanna, se non per rivendicare ciò che nessuna persona in buona fede può mettere in dubbio e che la sentenza stessa ha affermato: la sua estraneità a cosa nostra.
Eppure il suo impegno, sia pure solamente ideologico (non può essere eletto a cariche pubbliche e non aspira ad alcun incarico), lo ha esposto ad una campagna denigratoria ed a critiche feroci.
Dubitandosi addirittura che egli abbia diritto di esprimere e rendere pubblica una sua opinione o una sua proposta; o, peggio, un suo orientamento politico.
A questo punto, quindi, generalizzando il problema, partendo dal caso Cuffaro – ciò che era l’intento dell’odierna rubrica – ci si deve porre una domanda la cui risposta, ai tempi della mia gioventù sarebbe stata ovvia, specialmente se posta alla sinistra politica.
Il punto è se una persona condannata penalmente e che abbia scontato la pena debba essere reintegrata nella società o se debba essere considerato un reietto perenne, con una non pronunciata pena senza fine: un ergastolo morale che attesta più di ogni altra cosa il fallimento del nostro sistema punitivo, la cui funzione rieducativa è completamente ignorata dall’opinione pubblica.
In altri termini mi viene da chiedere cosa sia diventata la nostra società che non richiede più giustizia, ma solamente vendetta, che ricerca con cattiveria qualsiasi precedente che possa screditare chiunque, che non perdona e non dimentica mai. Ma è una storia che si ripete. Capitò già a un certo Jean Valjean di essere perseguitato tutta la vita per avere rubato un tozzo di pane. E non serve fare richiamo a principi di civiltà che dovrebbero essere prevalenti e che dovrebbero farci considerare Totò Cuffaro per quello che oggi è: un cittadino.
Cerco un lieto fine che trovo nelle parole espresse proprio da Cuffaro la settimana scorsa, commentando la vittoria della figlia Ida al concorso per magistrato:
«Sono stato premiato perché se mia figlia fa il concorso in magistratura io sono felice perché ha sconfitto la mia sconfitta. È un bene che va salvaguardato sempre, soprattutto quando ti graffia nelle carni. Se hai la forza di rispettare la giustizia in questi momenti è importante».