Dalla scuola e dalla università ci si attende innanzitutto la possibilità di acquisire una competenza specifica nel “saper fare”, ma tutto ciò, perché non diventi banalizzazione e superficialità, si deve accompagnare ad un ampliamento dell’orizzonte culturale.
Non è sufficiente una preparazione “tecnica” o “tecnicistica”, in questo o quel settore della conoscenza, per produrre eccellenze. Lo studio deve fornire gli strumenti intellettuali non solo per svolgere adeguatamente un compito, ma anche per coltivare le complessive e globali capacità critiche. L’identità si forma nello sviluppo delle capacità critiche di carattere generale (di discernere, di valutare, di capire il senso di una società), per essere adeguatamente sviluppate devono poi estendersi al contesto e all’orizzonte sociale e culturale.
Parlare con chiarezza per entrare in empatia con il prossimo
La prima condizione necessaria per creare un linguaggio condiviso tra gli italiani è la trasparenza, evitando la prevaricazione dell’oscurità del linguaggio, della tortuosità dell’arroganza e del disprezzo nei confronti degli altri.
Se non ci si parla, non ci si capisce e chi non capisce il prossimo non è in grado di entrare in sintonia con l’altro, tanto meno è in grado di prevedere un cammino con lui. Già Quintiliano (I secolo d.C.), il maestro della retorica classica, nel suo “De Institutio oratoria” limpidamente osservava: “Prima est eloquentiae virtus perspicuitas”, la prima dote dell’eloquenza è la chiarezza, la comprensibilità. La chiarezza e la semplicità sono paradossalmente due condizioni necessarie nell’”areopago” della società moderna. Viceversa, l’incapacità di esprimersi allontana, divide, genera sospetti che logorano il tessuto comune.
L’idea di professione come impegno sociale
Il lavoro è stato, ed è ancora, una condizione che crea una forte identità e in ambito religioso il termine “professione” fa riferimento alla fede, significa cioè la testimonianza pubblica del proprio credo. Professione è, dunque, lavoro, mestiere, compito sociale; la radice della parola resta però sempre la stessa —pro/fiteri. La riscoperta della radice della professione può promuovere un modo efficace di avere cura del bene comune. L’inversione di tendenza rispetto al clima pesante di lamentele e di rassegnazione, di protesta e di rabbia, per tornare a compiere il proprio mestiere, recuperando il rapporto di senso tra attitudini, preparazione e utilità sociale di quanto una persona fa, permette di ritrovare l’orizzonte in cui l’utilità sociale si misura rispetto ad un bene comune solido e duraturo.
Il lavoro è il centro della vita
Il lavoro deve allora ritornare al centro della vita italiana. Non tanto il guadagno – condizione certo irrinunciabile -, ma il lavoro. Intorno al lavoro si sono identificate le vicende e le vite di milioni di italiani. Molti di questi erano molto più poveri di noi eppure hanno costruito vite proprie e famigliari intorno al lavoro, diventato anche elemento di miglioramento di una società particolare e più generale. Perché il lavoro è la professione pubblica della funzione di crescita collettiva che ha come sfondo una visione di umanità e di futuro capace di far sprigionare energie morali imprevedibili. E, soprattutto oggi, noi abbiamo bisogno di questo: non tanto di lamentarsi, protestare, recriminare, indignarsi; passaggi che, visti in sé stessi, possono essere necessari ma non possono essere definitivi. Abbiamo soprattutto bisogno di coltivare una grande visione delle nostre responsabilità.