martedì, 19 Marzo, 2024
Esteri

USA 2020: Riuscirà il “Presidente eletto” a diventare davvero Presidente?

Nel giorno in cui i mass media annunziano il superamento – da parte di Joe Biden – del Magic Number di 270 grandi elettori cui è affidato il compito di nominare il  nuovo Presidente degli Stati Uniti, mi permetto qualche considerazione di ordine puramente giuridico al solo fine di spiegare come un simile annunzio  sia poco più dell’avvio di un percorso, tutt’altro che lineare, destinato a  chiudere un procedimento elettorale che terminerà, nel prossimo mese di gennaio, con il giuramento del Vincitore nelle mani del Presidente della Corte Suprema americana.

Due elementi sono alla base di questa mia affermazione, che potrebbe apparire controcorrente: da una parte il mancato riconoscimento della propria sconfitta da parte di Donald Trump e, dall’altra, l’interpretazione “originalista” di quella Costituzione di cui si trovano echi nella relativa giurisprudenza.

Il primo è un fatto troppo frettolosamente liquidato come la prima conseguenza dell’Unfair Play del Presidente in carica, mentre il secondo è un indirizzo di pensiero che poco o nulla ha a che fare con il primo e che è ben descritto nel volume collettaneo curato in tempi non sospetti (anno 2007) da Steven G. Calabresi, dal titolo “Originalism: a quarter century of debate”, ove si sostiene che la separazione dei poteri di governo è centrale nella Costituzione Federale statunitense e il potere giudiziario deve pronunciarsi solamente su quanto la legge è e non anche su quanto dovrebbe invece essere.

L’Originalismo come dottrina ha voluto perciò offrire ad ogni cittadino la possibilità di conoscere a fondo le coordinate per consentirgli di interpretare correttamente il testo costituzionale che regge – fin dalla Convenzione di Filadelfia – la vita della grande potenza nordamericana.

L’opera appena richiamata mette anche in luce i problemi gravissimi di ordine costituzionale, nonché gli abusi interpretativi che essa ascrive al potere giudiziario nel momento in cui – allontanandosi dallo spirito della Convenzione di Filadelfia del 1787 – quest’ultimo può giungere fino al punto di ledere diritti fondamentali dei cittadini stessi: primo fra tutti quello ad operazioni elettorali che rispettino effettivamente la volontà degli elettori, ponendo questi ultimi in condizione di assoluta parità fra di loro, indipendentemente dal credo politico che li distingue.

Laddove una tale parità venga meno – o per condizioni personali e sociali, o per modalità di esercizio dell’elettorato attivo – occorrerà ai giudici ripristinarla, individuando le modalità corrette di votazione fino ad escludere dal conteggio dei voti quelli espressi al di fuori delle normali garanzie apprestate dall’ordinamento per la individuazione di ciascun votante.

È difficile, alla luce di quanto sopra, mettere su un piano di parità il voto espresso recandosi personalmente al seggio elettorale rispetto a quello inviato per posta, a meno che il secondo non offra identiche garanzie di genuinità rispetto al primo ed anche se la legislazione di ciascuno Stato consenta (o addirittura obblighi) all’espressione del voto a mezzo posta, una tale specie di voti – per essere validamente conteggiata – deve comunque offrire le medesime garanzie di genuinità dei voti dati in presenza; diversamente si verrebbe a tradire lo spirito originario che mosse , nel 1787, gli autori della richiamata Convenzione di Filadelfia.

Orbene, le difficoltà di conteggio e le polemiche che hanno accompagnato lo spoglio delle schede celebratosi nei giorni scorsi possono ben essere elementi da portare alla valutazione dei giudici (statali prima e federali poi) per domandar loro di escludere dal conteggio utile le sole schede che, per essere giunte attraverso il servizio postale, non possano consentire di identificarne con certezza la diretta provenienza dall’elettore.

Debbo questo punto ricordare come la miglior sintesi della allocazione di poteri fra singoli Stati e loro Federazione sia contenuta nel 10º emendamento della Costituzione federale, secondo cui i poteri che non sono delegati alla Costituzione degli Stati Uniti (Federazione), ma che non siano dalla stessa proibiti agli Stati, siano riservati rispettivamente a Questi Ultimi o al popolo, inteso come corpo elettorale unitario.

Vero è però che un tale emendamento mal si coniuga con il carattere vago delle originarie sette clausole costituzionali (di qui il termine “Originalismo”), cosicché l’ultima parola spetta alla Corte Suprema: cioè al giudice ove Donald Trump (o meglio il Partito Repubblicano) gode di una solida maggioranza.

La Corte Suprema Federale funge così da ultima istanza, in senso tecnico, tanto per le questioni federali che per quelle statali che siano però attratte nel circuito federale e ad Essa si può ricorrere anche dalle Corti Supreme statali, magari sostenendo la violazione di un principio di diritto federale, sia esso contenuto o meno nella Costituzione (o almeno nel suo già richiamato nucleo originale): questo grazie al ruolo di vertice che la Corte Suprema Federale ha saputo, nei decenni,  conquistarsi, così estendendo l’ambito della propria giurisdizione in materie nuove e diverse da quelle originarie.

Nell’esperienza statunitense, infatti, Federazione e Stati membri difendono gelosamente le rispettive sfere di competenza, i cui confini tuttavia non sono mai stati fissi, anche se nel corso dell’evoluzione del diritto americano la sfera federale è venuta ad ampliarsi sempre di più, fino a suscitare contrastanti reazioni  nel Movimento Originalista di cui ho già detto e che da tempo è venuta a permeare la cultura e le scelte dei giudici di ogni ordine e grado.

In una simile prospettazione non può neanche dimenticarsi come il voto espresso lo scorso 3 novembre non abbia riguardato direttamente l’elezione dell’uno o dell’altro candidato alla Presidenza, ma sia stato rivolto solamente ad identificare i Grandi Elettori che – indicando il nuovo Presidente con il loro voto dichiarato innanzi al Congresso – eserciteranno il mandato conferitogli dai cittadini in favore del candidato che Loro, e solo Loro, contribuiranno ad eleggere.

Ecco così spiegata anche la strategia dello stesso Trump, che – rifiutandosi di riconoscere immediatamente in Biden il vincitore e parlando (forse anche impropriamente) di brogli – tenterà di ottenere non solamente il riconteggio delle schede in alcuni dei singoli Stati ove Egli sia risultato soccombente, ma chiederà anche la declaratoria di nullità delle schede che – giunte ai seggi attraverso il servizio postale – non possano offrire garanzie di genuinità almeno simili a quelle direttamente depositate direttamente nell’urna dai cittadini: schede, queste ultime, che lo hanno visto notoriamente in vantaggio per la designazione dei suddetti Grandi Elettori che concorreranno tutti insieme a nominare –  fra qualche settimana – il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America.

Oggi, dunque, non possiamo sapere con certezza che cosa succederà domani e continuo a credere che le manifestazioni cui ho assistito in queste ore siano innanzitutto un tentativo, più o meno cosciente, di proseguire la campagna elettorale che si vuol dichiarare finita, mentre è tutt’ora in corso.

L’unica certezza infatti ce la offrono le turbolenze che, dalla notte di sabato, percuotono l’ordine pubblico nord americano per andare a sommarsi alle manovre che, all’interno del complicato sistema politico di quel Paese, muovono gli scambi di una strada ferrata su cui corre il treno elettorale ancora incerto della propria destinazione.

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