venerdì, 26 Aprile, 2024
Società

La vera misura dell’uomo è essere cittadino

“Or di’: sarebbe il peggio per l’omo in terra, s’e’ non fosse cive?”. Sarebbe la cosa peggiore per l’uomo, se non fosse organizzato in una struttura civile? È questa la domanda posta da Carlo Martello d’Angiò a Dante nell’ottavo canto del Paradiso. Il sommo Poeta risponde di sì: non c’è niente di peggiore per l’uomo. E forse oggi questo scambio di battute dovrebbe risuonare più forte nella testa di noi italiani, ma anche di noi cittadini globali. Oggi più che mai, in questa situazione critica di emergenza, è necessario riflettere su cosa voglia dire essere cittadini. È soprattutto in situazioni critiche e di emergenza, infatti, che ciascuno di noi è chiamato a compiere la propria parte e a contribuire in prima persona alla cosa pubblica.

Essere cittadino vuol dire riconoscersi in un ordine sociale più grande. Vuol dire essere consapevoli che da soli, senza collaborare gli uni con gli altri, non possiamo realizzare nulla di realmente importante. Vuol dire riconoscere all’uomo quell’essenza di animale sociale tanto cara ai Greci, ma anche ai Romani. Così afferma Cicerone nel De finibus: “Siamo nati con l’istinto dell’unione, dell’associazione e della comunanza propri del genere umano”. È una caratteristica propria dell’uomo la spinta a costruire una società, a condividere dei progetti e dei valori.

Ma in che modo contribuire al bene comune, in che modo compiere la propria parte? Una risposta ci viene offerta nello stesso canto ottavo del Paradiso. L’anima di Carlo Martello d’Angiò spiega a Dante che ciascuno di noi nasce con una natura propria, che differisce da quella dei genitori, e viene conferita dalla Provvidenza. Per ogni persona, dunque, Dio ha un disegno, un progetto. Ed è per questo “ch’un nasce Solone e altro Serse”, cioè uno nasce sapiente, l’altro guerriero, e così via. L’errore degli uomini consiste nel non voler riconoscere questa verità, ostinandosi a rivestire ruoli non adatti a sé stessi. Così Carlo Martello rimprovera coloro che indirizzano alla vita religiosa una persona che è adatta alla guerra, che pongono su un trono chi è adatto a predicare. Se invece ciascuno seguisse le proprie inclinazioni naturali, non ci sarebbe disordine sociale e si ritroverebbero le persone giuste a svolgere il ruolo giusto.

La società è infatti composta da cittadini con talenti diversi, chiamati a compiere funzioni diverse. Aristotele nella Politica afferma: “Uno stato non consiste solo di una massa di uomini, bensì di uomini specificamente diversi”. Queste parole colpiscono duramente una società come la nostra, che tende all’omologazione e a non valorizzare la preziosità delle differenze. È invece necessario ricordarci che ciascuno di noi è unico e può apportare un contributo altrettanto unico alla società.

In questi giorni, in cui si parla di ripartenza, riflettiamo su ciò che ciascuno di noi può fare da cittadino per poter contribuire al bene pubblico. Teniamo a mente che la società è un mosaico complesso, ma allo stesso tempo completo, che funziona solamente se ciascuno contribuisce con la sua parte. Bisogna ripartire da un mondo in cui ognuno sia messo nelle condizioni di poter rivestire il ruolo che più si confà alla propria natura.

Un mondo in cui ciascun ruolo viene valorizzato e rispettato, nella consapevolezza che solo una società composita e inclusiva può rispecchiare la natura umana. Un mondo più equo e meritocratico, in cui ciascuno di noi possa ritrovare ed esprimere al meglio la sua naturale misura di cittadino.

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