sabato, 20 Aprile, 2024
A cuore aperto

Cristina Gattel, essere infermiera contro il Covid

Cristina è esile ma fortissima, il suo viso è invaso dal sorriso, sempre. Non esiste espressione di preoccupazione, anche nel dramma delle emergenze più dure, che abbia oscurato mai quella porta aperta all’altro nel suo volto, quel movimento delle labbra che rassicurava di speranza e presenza i pazienti. Cristina Gattel, infermiera di terapia intensiva cardiochirurgica degli Ospedali Riuniti di Pordenone, sa bene che, quando il cuore del malato non funziona, è necessario che la dea speranza e le mani di chi cura facciano bene il loro lavoro.

Lavorare in alcuni reparti vuol dire vivere la mescolanza di procedure, terapie, tubi, sangue in sacche, elettrocardiogrammi che si fanno linee e poi ripartono, corse contro il tempo, preghiere, pianti, e “se dovesse andare male dillo ai miei che li amo”. Cristina ha sempre risposto al malato, sorridendo, “sarai tu a dirglielo. Andrà tutto bene”. Perché serve crederci per guarire, serve a veder accadere anche i miracoli. E un miracolo Cristina ed io lo abbiamo visto insieme, quando Christa, una donna trapiantata e con tali complicanze cliniche da  essere considerata ormai vegetativa, è tornata ad alzarsi dal letto di terapia intensiva. Oggi, in piena emergenza covid19, Cristina mi racconta di alzarsi ogni mattina sapendo di combattere una battaglia impari, poiché se il coronavirus è pericoloso per chiunque, per un paziente cardiochirurgico esserne affetti vuol dire combattere una battaglia con risorse fisiche ridotte al minimo, quando non compromesse.

Cristina, chi è l’infermiera in questo momento?
È la professionista che si alza la mattina non sapendo cosa l’aspetta in una rianimazione. È la professionista che appena incontra i suoi colleghi domanda “Come siamo, quanti siamo, quanti ne abbiamo, quali nuove disposizioni arrivate, quali protocolli, quali linee guida, quali cambi percorsi”. È l’infermiera con il volto segnato, solcato da quella maschera, non la maschera di un super eroe, la maschera che ci protegge dal nemico che stiamo combattendo. È la maschera e che ci toglie l’identità, è il camice che nasconde il nostro corpo. È l’infermiera che finisce il turno, che non sa quanto durerà. È l’infermiera che fa la doccia in Ospedale per paura di portare a casa quello che potrebbe accidentalmente aver toccato. È l’infermiera che si avvicina al paziente, quando lo può fare , e dice “Che ne dice se chiamiamo sua moglie e suo figlio a casa per un saluto?”. Perché lui non lo sa, ma lei si che non potrebbe più vederli. Lei conosce la sua fragilità. Non sopporta che non possa stringere la mano di un suo caro, che non possa riceverne una carezza. E allora lei, quella carezza gliela dona; un guanto a separare la pelle, ma uno sguardo che abbassa la barriera e fa da tramite. È l’infermiera che rientra a casa cercando di ritagliarsi momenti di normalità, quotidianità, per se stessa e per chi le vive accanto.

Credi sia stata resa sempre giustizia al vostro lavoro?
Siamo sempre noi, gli stessi infermieri in un sistema che spesso ci ha abbandonati, tagliando risorse, materiali, umane, professionali, ma non ci ha tolto l’amore per la nostra professione . Ma abbiamo resistito e oggi lo facciamo più che mai. Che ci siano critiche ma che siano costruttive,  ora non abbiamo bisogno di scontri ma di incontri, che ci facciano rimanere in piedi, ci serve forza, lucidità e aiuto da parte di tutti.

Perché desideri portare questa testimonianza?
Abbiamo bisogno di questi racconti  per conservare la nostra identità, la nostra fragilità, la nostra forza, il nostro sé. È un contagio che ha rivelato l’essere di ognuno. Vi siamo grati, per ogni pensiero, per ogni gesto, per ogni parola, per ogni disegno, per ogni musica , per ogni lacrima. Vi siamo grati se continuate a resistere e rimanere in casa, se adottate quelle semplici, poche regole che vi chiediamo. E no, non vi porterò dentro gli occhi di quel paziente, non vi porterò dentro un lamento, una sofferenza, un tormento, la sua paura, nel suo essere solo. Non lo farò. Vorrei preservarvi, perché un’infermiera  sa quando è il tempo di proteggervi e di proteggere.

Cosa serve in questo momento?
Esprimerci, perché forse ci serve, ma quello che è utile manifestare e non quello che può ferire. So che è difficile,  ma in questo momento non abbiamo bisogno di altre ferite, solo di ricucire.

Condividi questo articolo:
Sponsor

Articoli correlati

Coronavirus: Coldiretti Campania, agriturismi giù di 2 milioni a Pasqua

Redazione

Utilities, una sfida per un nuovo Patto generazionale

Adolfo Spaziani e Tommaso Paparo

Se il virus umilia le élites dirigenti

Giuseppe Mazzei

Lascia un commento

Questo modulo raccoglie il tuo nome, la tua email e il tuo messaggio in modo da permetterci di tenere traccia dei commenti sul nostro sito. Per inviare il tuo commento, accetta il trattamento dei dati personali mettendo una spunta nel apposito checkbox sotto:
Usando questo form, acconsenti al trattamento dei dati ivi inseriti conformemente alla Privacy Policy de La Discussione.