“Padre e fratello”, così lo ha sempre definito Papa Bergoglio.
Giuseppe Ratzinger, che in serenità se n’è andato a 95 anni, è stato un Papa coraggioso, che ha permeato il suo pontificato con una solida dottrina teologica, una cultura raffinata e sconfinata e una grande preoccupazione per il futuro del mondo occidentale tentato di perdere l’aggancio ai valori della sua storia che ha radici incancellabili nel cristianesimo.
Nato il sabato santo del 1927, scompare al termine di un anno segnato dagli orrori della guerra nel cuore dell’Europa e da tante tragedie che colpiscono la dignità della persona umana che Benedetto XVI ha sempre difeso, considerandola uno dei pilastri centrali della fede cristiana.
Eletto Papa il 19 aprile dl 2005, Ratzinger ha dovuto fronteggiare molti problemi interni al mondo cattolico denunciando quella che durante la via Crucis al Colosseo chiamò senza paura “la sporcizia nella Chiesa”. Non ha esitato a fare pulizia ma senza mai indebolire la solidità del messaggio cristiano e cattolico per il cui rafforzamento si è sempre battuto in ogni occasione.
Tre le sue encicliche: Caritas in veritate (2009), Spe salvi (2007), Deus caritas est (2005). Numerosi i suoi discorsi che hanno sempre attirato attenzione anche da parte del mondo laico.
La storia si occuperà di fare un bilancio del suo pontificato. Noi che viviamo nella cronaca possiamo solo ricordare il suo esempio come uomo di fede, la sua tenacia nel difendere l’identità cristiana di fronte ad un malinteso senso del multiculturalismo, la sua umiltà testimoniata dalle dimissioni del 2013 che furono non una fuga dalle responsabilità ma “un atto di governo della Chiesa” ,secondo il lucido commento di allora di Padre Lombardi.
Chi pensa di piegare la figura di Papa Ratzinger ai cliché abituali che vedono un conflitto perenne tra tradizionalismo e progressismo nella Chiesa cattolica, si sbaglia. Ogni Papa interpreta il suo ruolo sulla base della sua formazione, della storia personale e pastorale e del momento storico in cui esercita il suo pontificato. Le sensibilità e i linguaggi possono essere diversi come è normale che sia. Ma il nucleo centrale del messaggio della Chiesa non cambia. I richiami di Ratzinger a tenere saldi i principi e i valori del cristianesimo rimangono come un atto di testimonianza di cui gli va dato merito.
Per questo ci piace ricordare la Lectio Magistralis tenuta il 13 maggio del 2004 nella biblioteca del Senato dall’allora Cardinale Ratzinger sul tema “Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani“. Una lettura sempre attuale che consigliamo a tutti.
Ecco il testo:
Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani
Lectio magistralis del Cardinale Ratzinger
Biblioteca del Senato
Sala Capitolare del Convento di S. Maria sopra Minerva
L’Europa – Cos’è essa propriamente? Questa domanda è stata sempre nuovamente posta, in maniera espressa, dal cardinal Józef Glemp in uno dei circoli linguistici del Sinodo Episcopale sull’Europa: dove comincia, dove finisce l’Europa? Perché ad esempio la Siberia non appartiene all’Europa, sebbene essa sia abitata anche da europei, la cui modalità di pensare e di vivere è inoltre del tutto europea? E dove si perdono i confini dell’Europa nel sud della comunità di popoli della Russia? Dove corre il suo confine nell’Atlantico? Quali isole sono Europa, e quali invece non lo sono, e perché non lo sono? In questi incontri divenne perfettamente chiaro che Europa solo in maniera del tutto secondaria è un concetto geografico: l’Europa non è un continente nettamente afferrabile in termini geografici, ma è invece un concetto culturale e storico.
Il sorgere dell’Europa
Questo risulta in modo assai evidente se tentiamo di risalire alle origini dell’Europa. Chi parla dell’origine dell’Europa, rinvia solitamente ad Erodoto (ca. 484-425 a. C.), il quale certamente è il primo a conoscere l’Europa come concetto geografico, e la definisce così: «i Persiani considerano come cosa di loro proprietà l’Asia e i popoli barbari che vi abitano, mentre ritengono che l’Europa e il mondo greco siano un paese a parte». I confini dell’Europa stessa non vengono addotti, ma è chiaro che terre che oggi sono il nucleo dell’Europa odierna giacevano completamente al di fuori del campo visivo dell’antico storico. Di fatto con la formazione degli stati ellenistici e dell’Impero Romano si era formato un continente che divenne la base della successiva Europa, ma che esibiva tutt’altri confini: erano le terre tutt’attorno al Mediterraneo, le quali in virtù dei loro legami culturali, in virtù dei traffici e dei commerci, in virtù del comune sistema politico formavano le une insieme alle altre un vero e proprio continente. Solo l’avanzata trionfale dell’Islam nel VII e all’inizio dell’VIII secolo ha tracciato un confine attraverso il Mediterraneo, lo ha per così dire tagliato a metà, cosicché tutto ciò che fino ad allora era stato un continente si suddivideva adesso oramai in tre continenti: Asia, Africa, Europa.
In oriente la trasformazione del mondo antico si compì più lentamente che in occidente: l’Impero Romano con Costantinopoli come punto centrale resistette laggiù – anche se sempre più spinto ai margini – fino al XV secolo. Mentre la parte meridionale del Mediterraneo attorno all’anno 700 è completamente caduta fuori di quello che fino ad allora era un continente culturale, si verifica nel medesimo tempo una sempre più forte estensione verso il nord. Il limes, che sino ad allora era stato un confine continentale, scompare e si apre verso un nuovo spazio storico, che ora abbraccia la Gallia, la Germania, la Britannia come terre-nucleo vere e proprie, e si protende in maniera crescente verso la Scandinavia. In questo processo di spostamento dei confini la continuità ideale con il precedente continente mediterraneo, misurato geograficamente in termini differenti, venne garantita da una costruzione di teologia della storia: in collegamento con il libro di Daniele, si considerava l’Impero Romano rinnovato e trasformato dalla fede cristiana come l’ultimo e permanente regno della storia del mondo in generale, e si definiva perciò la compagine di popoli e di stati che era in via di formazione come il permanente Sacrum Imperium Romanum.
Questo processo di una nuova identificazione storica e culturale è stato compiuto in maniera del tutto consapevole sotto il regno di Carlo Magno, e qui emerge ora nuovamente anche l’antico nome di Europa, in un significato mutato: questo vocabolo venne ora impiegato addirittura come definizione del regno di Carlo Magno, ed esprimeva al tempo stesso la coscienza della continuità e della novità con cui la nuova compagine di stati si presentava come la forza propriamente carica di futuro. Carica di futuro proprio perché si concepiva in continuità con la storia del mondo fino ad allora e ultimamente ancorata in ciò che permane sempre.
Nell’autocomprensione che andava così formandosi è espressa parimenti la consapevolezza della definitività, così come al tempo stesso la consapevolezza di una missione.
È vero che il concetto di Europa è pressoché nuovamente scomparso dopo la fine del regno carolingio ed è rimasto solamente conservato nel linguaggio dei dotti; nel linguaggio popolare esso trapassa solamente all’inizio dell’epoca moderna – certo in connessione con il pericolo dei Turchi, come modalità di autoidentificazione -, per imporsi in generale nel XVIII secolo. Indipendentemente da questa storia del termine, il costituirsi del regno dei Franchi come l’Impero Romano mai tramontato e ora rinato significa di fatto il passo decisivo verso ciò che noi oggi intendiamo quando parliamo di Europa.
Certo non possiamo dimenticare che c’è anche una seconda radice dell’Europa, di un’Europa non occidentale: l’Impero Romano aveva in effetti, come già detto, resistito a Bisanzio contro le tempeste della migrazione dei popoli e dell’invasione islamica. Bisanzio intendeva se stessa come la vera Roma; qui di fatto l’Impero non era mai tramontato, ragion per cui si continuava ad avanzare una rivendicazione nei confronti dell’altra metà, quella occidentale, dell’Impero. Anche questo Impero Romano d’Oriente si è esteso ulteriormente verso il nord, fin dentro il mondo slavo, e si è creato un proprio mondo, greco-romano, che si differenzia rispetto all’Europa latina dell’occidente in virtù di una diversa liturgia, una diversa costituzione ecclesiastica, una diversa scrittura, e in virtù della rinuncia al latino come comune lingua insegnata.
Certamente ci sono anche sufficienti elementi unificanti, che possono fare dei due mondi un unico, comune continente: in primo luogo la comune eredità della Bibbia e della Chiesa antica, la quale del resto in entrambi i mondi rinvia aldilà di se stessa verso un’origine che ora giace al di fuori dell’Europa, e cioè in Palestina; inoltre la stessa comune idea di Impero, la comune comprensione di fondo della Chiesa e quindi anche la comunanza delle fondamentali idee del diritto e degli strumenti giuridici; infine io menzionerei anche il monachesimo, che nei grandi sommovimenti della storia è rimasto l’essenziale portatore non solamente della continuità culturale, bensì soprattutto dei fondamentali valori religiosi e morali, degli orientamenti ultimi dell’uomo, e in quanto forza pre-politica e sovra-politica divenne portatore delle sempre nuovamente necessarie rinascite.
Tra le due Europe, pur in mezzo alla comunanza dell’essenziale eredità ecclesiale, c’è tuttavia ancora una profonda differenza, alla cui importanza ha accennato specialmente Endre von Ivanka: a Bisanzio Impero e Chiesa appaiono quasi identificati l’uno con l’altro; l’imperatore è capo anche della Chiesa. Egli intende se stesso come rappresentante di Cristo, e in collegamento con la figura di Melchisedek, che era al tempo stesso re e sacerdote (Gen 14,18), porta dal VI secolo il titolo ufficiale di «re e sacerdote». Per il fatto che a partire da Costantino l’imperatore se ne era andato via da Roma, nell’antica capitale dell’Impero poté svilupparsi la posizione autonoma del vescovo di Roma come successore di Pietro e pastore supremo della Chiesa; qui già dall’inizio dell’era costantiniana viene insegnata una dualità di potestà: imperatore e papa hanno in effetti potestà separate, nessuno dispone della totalità. Il papa Gelasio I (492-496) ha formulato la visione dell’Occidente nella sua famosa lettera all’imperatore Anastasio e ancor più chiaramente nel suo quarto trattato, dove egli di fronte alla tipologia bizantina di Melchisedek sottolinea che l’unità delle potestà sta esclusivamente in Cristo: «questi infatti, a causa della debolezza umana (superbia!), ha separato per i tempi successivi i due ministeri, affinché nessuno si insuperbisca» (c. 11). Per le cose della vita eterna gli imperatori cristiani hanno bisogno dei sacerdoti (pontifices), e questi a loro volta si attengono, per il corso temporale delle cose, alle disposizioni imperiali. I sacerdoti devono seguire nelle cose mondane le leggi dell’imperatore insediato per ordine divino, mentre questi deve sottomettersi nelle cose divine al sacerdote. Con ciò è introdotta una separazione e distinzione delle potestà, la quale divenne di massima importanza per il successivo sviluppo dell’Europa, e che per così dire ha posto i fondamenti di ciò che è propriamente tipico dell’Occidente.
Poiché da ambo le parti di contro a tali delimitazioni rimase vivo sempre l’impulso alla totalità, la brama di porre il proprio potere al di sopra dell’altro, questo principio di separazione è divenuto anche la sorgente di infinite sofferenze. Come esso debba essere vissuto correttamente e concretizzato politicamente e religiosamente rimane un problema fondamentale anche per l’Europa di oggi e di domani.
La svolta verso l’epoca moderna
Se in base a quanto sin qui detto possiamo considerare il sorgere dell’impero carolingio da una parte, e la continuazione dell’impero romano a Bisanzio e la sua missione verso i popoli slavi dall’altra parte come la vera e propria nascita del continente Europa, l’inizio dell’epoca moderna significa per ambedue le Europe una svolta, un cambiamento radicale, che concerne sia l’essenza di questo continente, sia i suoi contorni geografici.
Nel 1453 Costantinopoli venne conquistata dai Turchi. O.Hiltbrunner commenta questo evento in maniera laconica: «gli ultimi … dotti emigrarono… verso l’Italia e trasmisero agli umanisti del Rinascimento la conoscenza dei testi originali greci; ma l’Oriente sprofondò nell’assenza di cultura». Questa affermazione può essere formulata in maniera un po’ troppo rozza, poiché in effetti anche il regno della dinastia degli Osman aveva la sua cultura; ma è vero che la cultura greco-cristiana, europea, di Bisanzio trovò con ciò la sua fine. Così una delle due ali dell’Europa rischiò in tal modo di scomparire, ma l’eredità bizantina non era morta: Mosca dichiara se stessa come la terza Roma, fonda ora un proprio patriarcato sulla base dell’idea di una seconda translatio imperii e si presenta dunque come una nuova metamorfosi del Sacrum Imperium – come una propria forma di Europa, che tuttavia rimase unita con l’Occidente e si orientò sempre più verso di esso, fino a che Pietro il Grande tentò di farla diventare un paese occidentale. Questo spostamento verso nord dell’Europa bizantina portò con sé il fatto che ora anche i confini del continente si misero in movimento ampiamente verso oriente. La fissazione degli Urali come frontiera è oltremodo arbitraria, in ogni caso il mondo a oriente di essi diventò sempre più una specie di sottostruttura dell’Europa, né Asia né Europa, essenzialmente forgiato dal soggetto Europa, senza partecipare però esso stesso del suo carattere di soggetto: oggetto, e non portatore esso stesso della sua storia. Forse con ciò è definita, tutto sommato, l’essenza di uno stato coloniale.
Possiamo dunque, a riguardo dell’Europa bizantina, non occidentale, all’inizio dell’epoca moderna, parlare di un duplice evento: da una parte vi è il dissolvimento dell’antica Bisanzio con la sua continuità storica nei confronti dell’Impero Romano; dall’altra parte questa seconda Europa ottiene con Mosca un nuovo centro e amplia i suoi confini verso oriente, per erigere infine in Siberia una specie di pre-struttura coloniale.
Contemporaneamente possiamo constatare anche in occidente un duplice processo con notevole significato storico. Una grande parte del mondo germanico si distacca da Roma; sorge una nuova, illuminata forma di cristianesimo, cosicché attraverso l’occidente scorre d’ora in poi una linea di separazione, la quale forma chiaramente anche un limes culturale, un confine tra due diverse modalità di pensare e di rapportarsi. Certo c’è anche all’interno del mondo protestante una frattura, in primo luogo tra luterani e riformati, ai quali si associano metodisti e presbiteriani, mentre la chiesa anglicana tenta di formare una via di mezzo tra cattolici ed evangelici; a ciò si aggiunge poi anche la differenza tra cristianesimo sotto la forma di una chiesa di stato, che diventa contrassegno dell’Europa, e chiese libere, che trovano il loro spazio di rifugio nel Nordamerica, sulla qual cosa dovremo tornare a parlare.
Facciamo attenzione in primo luogo al secondo evento, che caratterizza essenzialmente la situazione dell’epoca moderna di quella che un tempo era l’Europa latina: la scoperta dell’America. All’allargamento verso est dell’Europa in virtù della progressiva estensione della Russia verso l’Asia corrisponde la radicale uscita dell’Europa fuori dai suoi confini geografici, verso il mondo che sta aldilà dell’Oceano, che ora riceve il nome di America; la suddivisione dell’Europa in una metà latino-cattolica e una metà germanico-protestante si trasferisce e si ripercuote su questa parte della terra occupata dall’Europa. Anche l’America diventa in un primo tempo una Europa allargata, una colonia, ma essa si crea contemporaneamente con il sommovimento dell’Europa ad opera della Rivoluzione Francese il suo proprio carattere di soggetto: dal XIX secolo in poi essa, sebbene forgiata nel profondo dalla sua nascita europea, sta tuttavia di fronte all’Europa come un soggetto proprio.
Nel tentativo di conoscere la più profonda, interiore identità dell’Europa attraverso lo sguardo sulla storia abbiamo adesso preso in osservazione due fondamentali svolte storiche: come prima la dissoluzione del vecchio continente mediterraneo ad opera del continente del Sacrum Imperium, collocato più verso nord, in cui si forma a partire dall’epoca carolingia la Europa come mondo occidentale-latino; accanto a questo la continuazione della vecchia Roma a Bisanzio, con il suo protendersi verso il mondo slavo. Come secondo passo avevamo osservato la caduta di Bisanzio e il conseguente spostamento da una parte dell’Europa verso nord e verso est dell’idea cristiana di impero, e dall’altra parte l’interna divisione dell’Europa in un mondo germanico-protestante e un mondo latino-cattolico, e oltre a ciò la fuoriuscita verso l’America, a cui si trasferisce questa divisione e che alla fine si costituisce come un soggetto storico proprio, che sta di fronte all’Europa. Ora noi dobbiamo porci davanti agli occhi una terza svolta, il cui fanale ben visibile fu formato dalla Rivoluzione Francese. È vero che il Sacrum Imperium come realtà politica già a partire dal tardo Medioevo era concepito in dissolvimento ed era divenuto sempre più fragile anche come valida e indiscussa interpretazione della storia, ma soltanto adesso questa cornice spirituale va in frantumi anche formalmente, questa cornice spirituale senza cui l’Europa non avrebbe potuto formarsi. Questo è un processo di portata considerevole, sia dal punto di vista politico, sia da quello ideale. Dal punto di vista ideale questo significa che la fondazione sacrale della storia e dell’esistenza statuale viene rigettata : la storia non si misura più in base ad un’idea di Dio ad essa precedente e che le dà forma; lo Stato viene oramai considerato in termini puramente secolari, fondato sulla razionalità e sul volere dei cittadini.
Per la prima volta in assoluto nella storia sorge lo Stato puramente secolare, che abbandona e mette da parte la garanzia divina e la normazione divina dell’elemento politico , considerandole come una visione mitologica del mondo e dichiara Dio stesso come affare privato, che non fa parte della vita pubblica e della comune formazione del volere. Questa viene ora vista solamente come un affare della ragione, per la quale Dio non appare chiaramente conoscibile: religione e fede in Dio appartengono all’ambito del sentimento, non a quello della ragione. Dio e la sua volontà cessano di essere rilevanti nella vita pubblica.
In questa maniera sorge, con la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, un nuovo tipo di scisma, la cui gravità noi percepiamo ora sempre più nettamente. Esso non ha in tedesco alcun nome, poiché qui si è ripercosso più lentamente. Nelle lingue latine viene delineato come divisione tra cristiani e laici. Questa lacerazione negli ultimi due secoli è penetrata nelle nazioni latine come una frattura profonda, mentre il cristianesimo protestante in un primo tempo ebbe vita facile nel concedere spazio alle idee liberali e illuministe all’interno di sé, senza che la cornice di un ampio consenso cristiano di fondo dovesse in tal modo venir distrutta. L’aspetto di politica realistica della dissoluzione dell’antica idea di impero consiste in questo, che ora definitivamente le nazioni, gli stati che sono divenute identificabili come tali in virtù della formazione di ambiti linguistici unitari, appaiono come i veri e unici portatori della storia, e dunque ottengono un rango che ad essi in precedenza non spettava così tanto. La drammaticità esplosiva di questo soggetto storico ora plurale si mostra nel fatto che le grandi nazioni europee si sapevano depositarie di una missione universale, che necessariamente doveva portare a conflitti fra di loro, il cui impatto mortale noi abbiamo dolorosamente sperimentato nel secolo ora trascorso.
L’universalizzazione della cultura europea e la sua crisi
Infine dobbiamo qui considerare ancora un ulteriore processo, con cui la storia degli ultimi secoli trapassa chiaramente in un mondo nuovo. Se la vecchia Europa precedente all’epoca moderna nelle sue due metà aveva conosciuto essenzialmente solo un dirimpettaio, con il quale doveva confrontarsi per la vita e per la morte, ossia il mondo islamico; se la svolta dell’epoca moderna aveva portato l’allargamento verso l’America e in parti dell’Asia senza propri grandi soggetti culturali, così ora ha luogo la fuoriuscita verso i due continenti sinora toccati solo marginalmente : l’Africa e l’Asia, che adesso parimenti si tentò di trasformare in succursali dell’Europa, in colonie. Fino ad un certo punto questo è anche riuscito, in quanto adesso anche Asia e Africa inseguono l’ideale del mondo forgiato dalla tecnica e del suo benessere, cosicché anche là le antiche tradizioni religiose entrano in una situazione di crisi e strati di pensiero puramente secolare dominano sempre più la vita pubblica.
Ma c’è anche un effetto contrario: la rinascita dell’Islam non è solo collegata con la nuova ricchezza materiale dei paesi islamici, bensì è anche alimentata dalla consapevolezza che l’Islam è in grado di offrire una base spirituale valida per la vita dei popoli, una base che sembra essere sfuggita di mano alla vecchia Europa, la quale così, nonostante la sua perdurante potenza politica ed economica, viene vista sempre più come condannata al declino e al tramonto.
Anche le grandi tradizioni religiose dell’Asia, soprattutto la sua componente mistica che trova espressione nel buddismo, si elevano come potenze spirituali di contro ad un’Europa che rinnega le sue fondamenta religiose e morali. L’ottimismo circa la vittoria dell’elemento europeo, che Arnold Toynbee poteva sostenere ancora all’inizio degli anni sessanta, appare oggi stranamente superato: «di 28 culture che noi abbiamo identificato … 18 sono morte e nove delle dieci rimaste – di fatto tutte tranne la nostra – mostrano che esse sono già colpite a morte». Chi ripeterebbe oggi ancora le stesse parole? E in generale – cos’è la nostra cultura, che è ancora rimasta? La cultura europea è forse la civiltà della tecnica e del commercio diffusa vittoriosamente per il mondo intero? O non è questa forse piuttosto nata in maniera post-europea dalla fine delle antiche culture europee? Io vedo qui una sincronia paradossale: con la vittoria del mondo tecnico-secolare post-europeo, con l’universalizzazione del suo modello di vita e della sua maniera di pensare, si collega in tutto il mondo, ma specialmente nei mondi strettamente non- europei dell’Asia e dell’Africa, l’impressione che il mondo di valori dell’Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e sia propriamente già uscito di scena; che adesso sia giunta l’ora dei sistemi di valori di altri mondi, dell’America pre-colombiana, dell’Islam, della mistica asiatica.
L’Europa, proprio in questa ora del suo massimo successo, sembra diventata vuota dall’interno, paralizzata in un certo qual senso da una crisi del suo sistema circolatorio, una crisi che mette a rischio la sua vita, affidata per così dire a trapianti, che poi però non possono che eliminare la sua identità. A questo interiore venir meno delle forze spirituali portanti corrisponde il fatto che anche etnicamente l’Europa appare sulla via del congedo.
C’è una strana mancanza di voglia di futuro. I figli, che sono il futuro, vengono visti come una minaccia per il presente; essi ci portano via qualcosa della nostra vita, così si pensa. Essi non vengono sentiti come una speranza, bensì come un limite del presente. Il confronto con l’Impero Romano al tramonto si impone: esso funzionava ancora come grande cornice storica, ma in pratica viveva già di quelli che dovevano dissolverlo, poiché esso stesso non aveva più alcuna energia vitale.
Con questo siamo giunti ai problemi del presente. Circa il possibile futuro dell’Europa ci sono due diagnosi contrapposte. C’è da una parte la tesi di Oswald Spengler, il quale credeva di poter fissare per le grandi espressioni culturali una specie di legge naturale: c’è il momento della nascita, la crescita graduale, la fioritura di una cultura, il suo lento appesantirsi, l’invecchiamento e la morte. Spengler arricchisce la sua tesi in modo impressionante, con documentazioni tratte dalla storia delle culture, in cui si può intravedere questa legge del decorso naturale. La sua tesi era che l’Occidente sarebbe giunto alla sua epoca finale, che corre inesorabilmente incontro alla morte di questo continente culturale, nonostante tutti i tentativi di scongiurarla. Naturalmente l’Europa può trasmettere i suoi doni ad una cultura nuova emergente, come è già accaduto nei precedenti declini di una cultura, ma in quanto soggetto essa ha ormai il suo tempo di vita alle sue spalle.
Questa tesi bollata come biologistica ha trovato appassionati oppositori nel tempo tra le due guerre mondiali specialmente in ambito cattolico; in maniera impressionante le si è mosso contro anche Arnold Toynbee, certo con postulati che oggi trovano poco ascolto. Toynbee mette in luce la differenza tra progresso materiale-tecnico da una parte, e dall’altra progresso reale, che egli definisce come spiritualizzazione. Egli ammette che l’Occidente – il mondo occidentale – si trova in una crisi, la cui causa egli la vede nel fatto che dalla religione si è decaduti al culto della tecnica, della nazione, del militarismo. La crisi significa per lui, ultimamente: secolarismo.
Se si conosce la causa della crisi, si può indicare anche la via della guarigione: deve essere nuovamente introdotto il fattore religioso, di cui fa parte secondo lui l’eredità religiosa di tutte le culture, ma specialmente quello «che è rimasto del cristianesimo occidentale». Alla visione biologistica si contrappone qui una visione volontaristica, che punta sulla forza delle minoranze creative e sulle personalità singole eccezionali.
La domanda che si pone è: è giusta questa diagnosi? E se sì – è in nostro potere introdurre nuovamente il momento religioso, in una sintesi di cristianesimo residuale ed eredità religiosa dell’umanità? Ultimamente la questione tra Spengler e Toynbee rimane aperta, perché noi non possiamo vedere nel futuro. Ma indipendentemente da ciò si impone il compito di interrogarci su che cosa può garantire il futuro, e su che cosa è in grado di continuare a far vivere l’interiore identità dell’Europa attraverso tutte le metamorfosi storiche. O ancora più semplicemente: che cosa anche oggi e domani promette di donare la dignità umana e un’esistenza conforme ad essa.
Per trovare una risposta a ciò dobbiamo gettare lo sguardo ancora una volta dentro il nostro presente e al tempo stesso tener presenti le sue radici storiche. In precedenza eravamo rimasti fermi, in effetti, alla Rivoluzione Francese e al XIX secolo. In questo tempo si sono sviluppati soprattutto due nuovi modelli europei. Ecco qui allora nelle nazioni latine il modello laicistico: lo Stato è nettamente distinto dagli organismi religiosi, che sono attribuiti all’ambito privato. Lo Stato stesso rifiuta un fondamento religioso e si sa fondato solamente sulla ragione e sulle sue intuizioni. Di fronte alla fragilità della ragione questi sistemi si sono rivelati fragili e facili a cadere vittima delle dittature; essi sopravvivono, propriamente, solo perché parti della vecchia coscienza morale continuano a sussistere anche senza i precedenti fondamenti e rendono possibile un consenso morale di base. Dall’altra parte, nel mondo germanico, esistono in maniera differenziata i modelli di Chiesa di Stato del protestantesimo liberale, nei quali una religione cristiana illuminata, essenzialmente concepita come morale – anche con forme di culto garantite dallo Stato – garantisce un consenso morale e un fondamento religioso ampio, al quale le singole religioni non di Stato devono adeguarsi. Questo modello in Gran Bretagna, negli stati scandinavi e in un primo tempo anche nella Germania dominata dai prussiani ha garantito per lungo tempo una coesione statuale e sociale. In Germania, tuttavia, il crollo del cristianesimo di Stato prussiano ha creato un vuoto, che poi parimenti si offrì come spazio vuoto per una dittatura. Oggi le chiese di Stato sono dappertutto cadute vittima del logoramento: da corpi religiosi che sono derivazioni dello Stato non proviene più alcuna forza morale, e lo Stato stesso non può creare forza morale, ma la deve invece presupporre e costruire su di essa.
Tra i due modelli si collocano gli Stati Uniti del Nord-America, che da una parte – formatisi sulla base delle chiese libere – prendono le mosse da un rigido dogma di separazione, dall’altra parte, aldilà delle singole denominazioni, vengono plasmati tuttavia da un consenso di fondo cristiano-protestante non forgiato in termini confessionali, il quale si collegava con una particolare coscienza della missione, nei confronti del resto del mondo, di tipo religioso e così dava al fattore religioso un significativo peso pubblico, che in quanto forza pre-politica e sovra-politica poteva essere determinante per la vita politica. Certo non ci si può nascondere che anche negli Stati Uniti il dissolvimento dell’eredità cristiana avanza incessantemente, mentre al tempo stesso il rapido aumento dell’elemento ispanico e la presenza di tradizioni religiose provenienti da tutto il mondo cambia il quadro. Forse si deve qui osservare anche che gli Stati Uniti promuovono ampiamente la protestantizzazione dell’America Latina e quindi il dissolvimento della Chiesa cattolica ad opera di forme di chiese libere, per la convinzione che la Chiesa cattolica non potrebbe garantire un sistema politico ed economico stabile, in quanto dunque fallirebbe come educatrice delle nazioni, mentre ci si aspetta che il modello delle chiese libere renderà possibile un consenso morale e una formazione democratica della volontà pubblica, simili a quelli caratteristici degli Stati Uniti. Per complicare ulteriormente il quadro si deve ammettere che oggi la Chiesa cattolica forma la più grande comunità religiosa negli Stati Uniti, che essa nella sua vita di fede sta decisamente dalla parte dell’identità cattolica, che però i cattolici a riguardo del rapporto tra Chiesa e politica hanno recepito le tradizioni delle chiese libere, nel senso che proprio una Chiesa non confusa con lo Stato garantisce meglio le fondamenta morali del tutto, cosicché la promozione dell’ideale democratico appare come un dovere morale profondamente conforme alla fede. In una posizione simile si può vedere a buon diritto una prosecuzione, adeguata ai tempi, del modello di papa Gelasio, di cui ho parlato sopra.
Torniamo all’Europa. Ai due modelli di cui parlavo prima se ne è aggiunto ancora nel XIX secolo un terzo, ossia il socialismo, che si suddivise presto in due diverse vie, quella totalitaria e quella democratica. Il socialismo democratico è stato in grado, a partire dal suo punto di partenza, di inserirsi all’interno dei due modelli esistenti, come un salutare contrappeso nei confronti delle posizioni liberali radicali, le ha arricchite e corrette. Esso si rivelò qui anche come qualcosa che andava al di là delle confessioni: in Inghilterra esso era il partito dei cattolici, che non potevano sentirsi a casa loro né nel campo protestante-conservatore, né in quello liberale. Anche nella Germania guglielmina il centro cattolico poteva sentirsi più vicino al socialismo democratico che alle forze conservatrici rigidamente prussiane e protestanti. In molte cose il socialismo democratico era ed è vicino alla dottrina sociale cattolica, in ogni caso esso ha considerevolmente contribuito alla formazione di una coscienza sociale.
Il modello totalitario, invece, si collegava con una filosofia della storia rigidamente materialistica e ateistica: la storia viene compresa deterministicamente come un processo di progresso che passa attraverso la fase religiosa e quella liberale per giungere alla società assoluta e definitiva, in cui la religione come relitto del passato viene superata e il funzionamento delle condizioni materiali può garantire la felicità di tutti. L’apparente scientificità nasconde un dogmatismo intollerante: lo spirito è prodotto della materia; la morale è prodotto delle circostanze e deve venir definita e praticata a seconda degli scopi della società; tutto ciò che serve a favorire l’avvento dello stato finale felice è morale. Qui il capovolgimento dei valori che avevano costruito l’Europa è completo. Ancor più, qui si realizza una frattura nei confronti della complessiva tradizione morale dell’umanità: non ci sono più valori indipendenti dagli scopi del progresso, tutto può, in un dato momento, essere permesso e persino necessario, può essere morale nel senso nuovo del termine. Anche l’uomo può diventare uno strumento; non conta il singolo, ma unicamente il futuro diventa la terribile divinità che dispone sopra tutti e sopra tutto.
I sistemi comunisti frattanto sono naufragati innanzitutto per il loro falso dogmatismo economico. Ma si trascura troppo volentieri il fatto che essi sono naufragati , più a fondo ancora, per il loro disprezzo dei diritti umani, per la loro subordinazione della morale alle esigenze del sistema e alle sue promesse di futuro. La vera e propria catastrofe che essi hanno lasciato alle loro spalle non è di natura economica; essa consiste nell’inaridimento delle anime, nella distruzione della coscienza morale. Io vedo come un problema essenziale della nostra ora per l’Europa e per il mondo questo, che non viene mai contestato il naufragio economico, e perciò i vetero-comunisti sono diventati senza esitazione liberali in economia; invece la problematica morale e religiosa, di cui propriamente si trattava, viene quasi completamente rimossa. Pertanto la problematica lasciata dietro di sé dal marxismo continua a esistere anche oggi: il dissolversi delle certezze primordiali dell’uomo su Dio, su se stessi e sull’universo – la dissoluzione della coscienza dei valori morali intangibili, è ancora e proprio adesso nuovamente il nostro problema e può condurre all’autodistruzione della coscienza europea, che dobbiamo cominciare a considerare – indipendentemente dalla visione del tramonto di Spengler – come un reale pericolo.
A che punto siamo oggi?
Così ci troviamo davanti alla questione: come devono andare avanti le cose? Nei violenti sconvolgimenti del nostro tempo c’è un’identità dell’Europa, che abbia un futuro e per la quale possiamo impegnarci con tutto noi stessi? Non sono preparato per entrare in una discussione dettagliata sulla futura Costituzione europea. Vorrei soltanto brevemente indicare gli elementi morali fondanti, che a mio avviso non dovrebbero mancare.
Un primo elemento è l'”incondizionatezza” con cui la dignità umana e i diritti umani devono essere presentati come valori che precedono qualsiasi giurisdizione statale. Questi diritti fondamentali non vengono creati dal legislatore, né conferiti ai cittadini, «ma piuttosto esistono per diritto proprio, sono da sempre da rispettare da parte del legislatore, sono a lui previamente dati come valori di ordine superiore». Questa validità della dignità umana previa ad ogni agire politico e ad ogni decisione politica rinvia ultimamente al Creatore: solamente Egli può stabilire valori che si fondano sull’essenza dell’uomo e che sono intangibili. Che ci siano valori che non sono manipolabili per nessuno è la vera e propria garanzia della nostra libertà e della grandezza umana; la fede cristiana vede in ciò il mistero del Creatore e della condizione di immagine di Dio che egli ha conferito all’uomo.
Ora oggi quasi nessuno negherà direttamente la precedenza della dignità umana e dei diritti umani fondamentali rispetto ad ogni decisione politica; sono ancora troppo recenti gli orrori del nazismo e della sua teoria razzista. Ma nell’ambito concreto del cosiddetto progresso della medicina ci sono minacce molto reali per questi valori: sia che noi pensiamo alla clonazione, sia che pensiamo alla conservazione dei feti umani a scopo di ricerca e di donazione degli organi, sia che pensiamo a tutto quanto l’ambito della manipolazione genetica – la lenta consunzione della dignità umana che qui ci minaccia non può venir misconosciuta da nessuno. A ciò si aggiungono in maniera crescente i traffici di persone umane, le nuove forme di schiavitù, l’affare dei traffici di organi umani a scopo di trapianti. Sempre vengono addotte finalità buone, per giustificare quello che non è giustificabile. In questi settori ci sono nella Carta dei diritti fondamentali alcuni punti fermi di cui rallegrarsi, ma in importanti punti essa rimane troppo vaga, mentre invece proprio qui ne va della serietà del principio che è in gioco.
Riassumiamo: la fissazione per iscritto del valore e della dignità dell’uomo, di libertà, eguaglianza e solidarietà con le affermazioni di fondo della democrazia e dello stato di diritto, implica un’immagine dell’uomo, un’opzione morale e un’idea di diritto niente affatto ovvie, ma che sono di fatto fondamentali fattori di identità dell’Europa, che dovrebbero venir garantiti anche nelle loro conseguenze concrete e che certamente possono venir difesi solamente se si forma sempre nuovamente una corrispondente coscienza morale.
Un secondo punto in cui appare l’identità europea è il matrimonio e la famiglia. Il matrimonio monogamico, come struttura fondamentale della relazione tra uomo e donna e al tempo stesso come cellula nella formazione della comunità statale, è stato forgiato a partire dalla fede biblica. Esso ha dato all’Europa, a quella occidentale come a quella orientale, il suo volto particolare e la sua particolare umanità, anche e proprio perché la forma di fedeltà e di rinuncia qui delineata dovette sempre nuovamente venir conquistata, con molte fatiche e sofferenze. L’Europa non sarebbe più Europa, se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse essenzialmente cambiata. La Carta dei diritti fondamentali parla di diritto al matrimonio, ma non esprime nessuna specifica protezione giuridica e morale per esso e nemmeno lo definisce più precisamente. E tutti sappiamo quanto il matrimonio e la famiglia siano minacciati – da una parte mediante lo svuotamento della loro indissolubilità ad opera di forme sempre più facili di divorzio, dall’altra attraverso un nuovo comportamento che si va diffondendo sempre di più, la convivenza di uomo e donna senza la forma giuridica del matrimonio. In vistoso contrasto con tutto ciò vi è la richiesta di comunione di vita di omosessuali, che ora paradossalmente richiedono una forma giuridica, la quale più o meno deve venir equiparata al matrimonio. Con questa tendenza si esce fuori dal complesso della storia morale dell’umanità, che nonostante ogni diversità di forme giuridiche del matrimonio sapeva tuttavia sempre che questo, secondo la sua essenza, è la particolare comunione di uomo e donna, che si apre ai figli e così alla famiglia. Qui non si tratta di discriminazione, bensì della questione di cos’è la persona umana in quanto uomo e donna e di come l’essere assieme di uomo e donna può ricevere una forma giuridica. Se da una parte il loro stare assieme si distacca sempre più da forme giuridiche, se dall’altra l’unione omosessuale viene vista sempre più come dello stesso rango del matrimonio, siamo allora davanti ad una dissoluzione dell’immagine dell’uomo, le cui conseguenze possono solo essere estremamente gravi.
Il mio ultimo punto è la questione religiosa. Non vorrei entrare qui nelle discussioni complesse degli ultimi anni, ma mettere in rilievo solo un aspetto fondamentale per tutte le culture: il rispetto nei confronti di ciò che per l’altro è sacro, e particolarmente il rispetto per il sacro nel senso più alto, per Dio, cosa che è lecito supporre di trovare anche in colui che non è disposto a credere in Dio. Laddove questo rispetto viene infranto, in una società qualcosa di essenziale va perduto. Nella nostra società attuale grazie a Dio viene multato chi disonora la fede di Israele, la sua immagine di Dio, le sue grandi figure. Viene multato anche chiunque vilipendia il Corano e le convinzioni di fondo dell’Islam. Laddove invece si tratta di Cristo e di ciò che è sacro per i cristiani, ecco che allora la libertà di opinione appare come il bene supremo, limitare il quale sarebbe un minacciare o addirittura distruggere la tolleranza e la libertà in generale. La libertà di opinione trova però il suo limite in questo, che essa non può distruggere l’onore e la dignità dell’altro; essa non è libertà di mentire o di distruggere i diritti umani.
C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se essa vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza costanti in comune, senza punti di orientamento a partire dai valori propri. Essa sicuramente non può sussistere senza rispetto di ciò che è sacro. Di essa fa parte l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri dell’altro, ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi stessi. Certo, noi possiamo e dobbiamo imparare da ciò che è sacro per gli altri, ma proprio davanti agli altri e per gli altri è nostro dovere nutrire in noi stessi il rispetto davanti a ciò che è sacro e mostrare il volto di Dio che ci è apparso – del Dio che ha compassione dei poveri e dei deboli, delle vedove e degli orfani, dello straniero; del Dio che è talmente umano che egli stesso è diventato un uomo, un uomo sofferente, che soffrendo insieme a noi dà al dolore dignità e speranza.
Se non facciamo questo, non solo rinneghiamo l’identità dell’Europa, bensì veniamo meno anche ad un servizio agli altri che essi hanno diritto di avere. Per le culture del mondo la profanità assoluta che si è andata formando in Occidente è qualcosa di profondamente estraneo. Esse sono convinte che un mondo senza Dio non ha futuro. Pertanto proprio la multiculturalità ci chiama a rientrare nuovamente in noi stessi.
Come andranno le cose in Europa in futuro non lo sappiamo. La Carta dei diritti fondamentali può essere un primo passo, un segno che l’Europa cerca nuovamente in maniera cosciente la sua anima. In questo bisogna dare ragione a Toynbee, che il destino di una società dipende sempre da minoranze creative. I cristiani credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale minoranza creativa e contribuire a che l’Europa riacquisti nuovamente il meglio della sua eredità e sia così a servizio dell’intera umanità.