venerdì, 19 Aprile, 2024
I dialoghi de La Discussione

La crescita e i piani incrociati delle rivoluzioni industriali

Il Convegno Internazionale di Informatica del 1998 riconobbe a Konrad Zuse, con il suo “Z1” (1939), il ruolo di inventore del primo computer della storia. Nei successivi anni ’40 le prime macchine introdussero il Mondo nella nuova era informatica, e fu a Torino, nel 1975, che venne realizzato il primo microcomputer con le funzioni tipiche dei personal classici. Il nome era MD 800, fu costruito da due giovani ingegneri dello CSELT. Esistevano tutte le condizioni, a partire dalla realtà industriale Olivetti a Ivrea, affinché l’Italia assumesse un ruolo leader, ma la consueta miopia e lentezza della classe politica nazionale e, in questo caso, anche di quella imprenditoriale, determinarono l’improvvido passaggio del testimone ad altri mercati. La Terza Rivoluzione Industriale, quella informatica, muove i primi passi a livello di massa durante gli anni ’70, partendo dall’invenzione del computer, dal tendenziale processo di informatizzazione del mondo dei media e della comunicazione ma, più in generale, dei processi produttivi e dei costumi globali. La successiva Quarta Rivoluzione, detta 4.0, attiene ad altro ambito, quello robotico.

Nel 2011 per la prima volta furono i tedeschi a utilizzare questa espressione alla Fiera di Hannover. Un travolgente processo di innovazione si innesta sulla spinta matura della Terza Rivoluzione. I due piani di Terza e Quarta rivoluzione si incrociano determinando grandi opportunità di crescita ma producendo al contempo segnali allarmanti sul piano occupazionale. Le ore di lavoro sono destinate a diminuire. Lavoravamo 16 ore al giorno per 6 giorni, siamo arrivati a lavorarne 8 per 5 giorni, arriveremo presto a lavorarne 3 per 3 giorni alla settimana? Grande qualità della vita per pochi, estromissione dal mercato del lavoro per tanti? Quanti posti di lavoro si porterà via l’intelligenza artificiale? Questa è la grande domanda.

Secondo McKinsey & Company oggi nel Mondo meno del 5% dell’attività lavorativa è già interamente automatizzata. L’Italia conta 160 robot ogni 10 mila dipendenti, quasi la metà dei 300 della Germania e meno di un terzo della Corea del Sud (531), ma non è distante dagli Usa (176) e ne ha più di Francia (127) e Regno Unito (71). Nei prossimi anni, secondo la società di consulenza, sei lavori su dieci potranno essere automatizzati almeno per 1/3 delle funzioni. Uno studio di Boston Consulting stima che il 30% dei bancari sarà cancellato in cinque anni. Secondo un’analisi di Adp, in Italia ci sono 3,2 milioni di posti di lavoro a rischio: il 25% dell’Agricoltura, il 20% del Commercio, il 19% dell’Industria.

Numeri incerti, ma è inutile affannarsi a ipotizzare, la vera domanda è un’altra: quanti di questi posti potranno essere sostituiti da nuovi tipi di occupazione? Voglio schierarmi su una posizione di ottimismo, partendo da una domanda generale: è possibile che processi di rivoluzione industriale e di innovazione tecnologica, a così alto contenuto scientifico e di qualità del lavoro, e di vita per milioni di uomini e donne, debbano consegnare l’Occidente ad un arretramento sociale? A imbarbarimento, disoccupazione e povertà diffuse? Le previsioni catastrofiche non mi convincono e intravedo, accanto ai rischi, figli del fallimento delle politiche pubbliche, condizioni utili affinché tutto l’Occidente possa investire su un futuro di progresso. E dunque: quali politiche per armonizzare scienza, tecnologie, crescita civile ed economica?  Quali politiche per il lavoro? Tema vasto che include la riforma del mercato del lavoro e il rapporto scuola-lavoro. Quale “rivoluzione 4.0” è possibile? E quale “lavoro sociale”, e nuovo welfare? Materia quest’ultima che mi ripropongo di trattare all’interno di una successiva particolare proposta di dibattito “I Dialoghi”.

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