giovedì, 25 Aprile, 2024
Attualità

Se il Mezzogiorno fosse una Macroregione Europea

La pandemia che si è propagata dalla Cina al resto del mondo ha già fatto tantissimi danni. Non solo alla salute del genere umano ma, per un prevedibile effetto a cascata, a tutti gli assetti economici, sociali e civili dei paesi più poveri e arretrati del pianeta. È inutile girarci intorno. Il virus non solo non è scomparso, ma, al contrario, sembra godere di ottima salute se è vero che sta diventando sempre più subdolo e pervasivo rispetto alle previsioni di  esperti, virologi e scienziati. Il nostro vecchio Continente non può certamente essere assimilato all’Africa, all’America Latina o ai paesi poveri del sud-est asiatico, ma i contraccolpi della crisi si riverseranno, a macchia di leopardo, anche sull’Europa. E il nostro Mezzogiorno, come tanti osservatori hanno fatto notare, potrebbe essere colpito due volte: dal virus e dall’economia che inevitabilmente si bloccherà. Le Regioni meridionali, soprattutto nei mesi del Lockdown, hanno dimostrato uno standard di obbedienza civile molto elevato, anche rispetto alle più evolute e progredite regioni del Nord. Questa ricorrente e stucchevole rappresentazione dei meridionali come gente indisciplinata e individualista, poco incline all’osservanza delle regole e rinchiusa nel suo gretto campanilismo è stata sonoramente smentita dai fatti. Altrettanta fermezza e senso di responsabilità ci augurano che, in questa prevedibile seconda ondata, vengano dimostrate sia dai Governatori sia dai cittadini meridionali. Il fronte sanitario nelle Regioni del Sud è molto vulnerabile.

Ecco perché, a pandemia terminata, bisognerà mettere mano a un’intelligente riforma della sanità regionale. La medicina di prossimità, i presidi sanitari, una rete capillare di medicina preventiva nei piccoli e piccolissimi centri del Sud sono tutti tasselli di un massiccio piano d’investimenti in un settore che resta tra i più critici della nostra società meridionale. Gli ospedali del Sud, lo dicono soprattutto i medici che combattono sul campo questo terribile virus, non sono in grado di reggere un eventuale stress test derivante da un aumento incontrollato dei contagi o da un aumento esponenziale dei ricoveri e delle terapie intensive. I soldi del Recovery Fund non sarà così facile averli e soprattutto chissà quando li avremo. Ecco allora l’importanza del Mes che dovrà essere assolutamente utilizzato dall’Italia per due motivi. Sono fondi già disponibili e soprattutto sono vincolati al settore sanitario. Altre scorciatoie non se ne vedono e soprattutto non sono previste clausole capestro per il suo utilizzo. Le condizioni di debolezza nel nostro Mezzogiorno, però, non sono circoscritte al sistema sanitario. È tutta la sua economia che, ancor prima del Covid, mostrava già segni di evidente sofferenza. Siamo forse finiti in un vicolo cieco? Dobbiamo rassegnarci a diventare come quelle aree povere e sottosviluppate dell’Europa dell’Est o dei Balcani? Non c’è dubbio che questa pandemia ci offre l’occasione per riflettere sui nostri errori e intraprendere un nuovo percorso di riscatto civile. Proprio com’è stato fatto nel passato. Subito dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia e in particolare il Mezzogiorno stavano letteralmente ai piedi di Cristo. Ovunque distruzioni, lutti, macerie. Eppure in soli dieci anni, il Mezzogiorno ha cambiato il suo volto civile e sociale e l’Italia è divenuta, con il sacrificio e il coraggio di tutti, la sesta potenza industriale del Mondo. Se il Mezzogiorno, a 150 anni dall’Unità d’Italia e a oltre settant’anni dalla nascita della Repubblica, presenta un divario così marcato rispetto al Centro Nord, condizioni di criticità ancora accentuate nella sua rete infrastrutturale e nel tessuto economico, la responsabilità non è sempre e solo dello Stato, del Governo e del Padreterno. I ritardi e, diciamolo pure, i fallimenti, sono ascrivibili soprattutto a noi meridionali. Perché il Mezzogiorno non riesce a fare sistema nel suo assetto istituzionale? Perché le Regioni del Sud, anziché aspirare al ruolo di “Repubblichette” non hanno mai seriamente intrapreso il cammino verso una grande Macroregione Europea? Un soggetto istituzionale in grado di competere non solo con il Nord-Est e il Nord Ovest, ma con tutte le altre grandi Macroregioni del Vecchio Continente?

Un grande meridionalista, il Professor Franco Cassano, in un suo pregevole saggio: “Il pensiero meridiano” sostiene proprio questa tesi.E cioè che il Mezzogiorno dovrà percorrere una strada autonoma che non segua modelli emulativi e soprattutto che non cerchi di “fare del Sud un Nord sbagliato”. Il Sud – è questa la tesi di Franco Cassano – deve essere soggetto del pensiero e non oggetto della riflessione altrui. Basta col Sud rappresentato come un mondo sbracato, mafioso, e clientelare.Il Pensiero Meridiano, invece, intende rappresentare il Sud visto dal Sud e non con gli occhi del Nord. Non c’è spazio in questa visione per il campanilismo, il regionalismo o peggio ancora per il vittimismo.

Ciò che manca al Sud è la sua soggettività istituzionale e ancor di più la sua riconoscibilità come territorio unico e specifico. Quando parliamo del nostro Meridione dobbiamo essere onesti con noi stessi. Il regionalismo, al Sud, così come si è sviluppato in questi ultimi cinquant’anni, è stato un mezzo fallimento. Le Regioni dovevano imporsi con un loro modello di programmazione, con una loro visione originale dello sviluppo economico, con standard burocratici opposti a quelli dello Stato. E  invece  si è fatto flop quasi dovunque. La Cassa del Mezzogiorno, in soli dieci anni, ha realizzato al Sud quello che le Regioni non hanno saputo realizzare in oltre cinquant’anni della loro storia. Non si spiegherebbe altrimenti perché ogni anno che passa, il Centro-Nord si allontana sempre più dal Sud e perché mai il Sud continua a spopolarsi, nonostante le condizioni di vita siano diecimila volte superiori a quelle del secondo dopoguerra. Tanti nostri uomini politici ragionano ancora con schemi ottocenteschi, con pretese identitarie simili a quelle che accampavano i Medici o i Gonzaga, i Granduchi di Lorena o i Borboni di Napoli. Mai questi signori avrebbero immaginato che un giorno si sarebbe avverato l’impossibile e cioè la fine delle loro casate e l’Unità d’Italia. Giustamente è stato fatto notare un dato incontrovertibile. Nell’Europa Unita del terzo millennio, come può una Regione come la Basilicata pretendere di contare qualcosa a Roma o a Bruxelles con una popolazione pari a quella della provincia di Reggio Emilia? E la Calabria cosa spera di ottenere nella sua Beata Solitudo? La sua popolazione è pari a quella di Torino e del suo hinterland. Ma il suo contributo alla ricchezza nazionale è  pari solo… a quello di Cuneo. E la Campania? Ha sei milioni di abitanti. È la regione più popolosa del Mezzogiorno. Ma qual è il suo Pil? Di gran lunga inferiore alla media europea, con un numero di addetti all’industria paragonabile a quello di una media città del Nord. Anche la Puglia che pure è la regione più dinamica del Sud, contribuisce alla ricchezza nazionale solo con un modestissimo 5%. Se queste sono le premesse, mi chiedo quale peso specifico potrà mai avere il Mezzogiorno, soprattutto nei prossimi mesi quando si avvierà il Piano di rilancio dell’Europa. Il discorso cambierebbe completamente se il Mezzogiorno, anziché diviso in sei/sette “repubblichette” che non fanno sistema, si presentasse al tavolo di Bruxelles come Macroregione meridionale, con una sola voce e con dei progetti seri e sostenibili. Una Macroregione che avrebbe gli stessi abitanti dell’Olanda e del Belgio messi insieme. Che avrebbe un Pil e quindi una ricchezza complessiva pari a quella della Lombardia che da sola si colloca tra le cinque regioni più ricche d’Europa. Una Macroregione che avrebbe lo stesso prodotto interno lordo della Svezia, Portogallo, Danimarca, Belgio, Austria e Irlanda. Per non parlare poi del peso specifico che il Mezzogiorno avrebbe sullo scacchiere geopolitico del Mediterraneo. Questa collocazione strategica del Meridione nel grande bacino euromediterraneo la compresero bene Carlo Magno, Federico II di Svevia, i Normanni, gli Svevi, gli Angioini, Napoleone Bonaparte e finanche gli Anglo-americani, quando decisero di liberare il fronte sud europeo, sbarcando in Sicilia e non altrove. Il traguardo non è poi così impossibile, ma le Regioni meridionali hanno preso qualche iniziativa in tal senso? Vogliono continuare ad assistere, sempre più rassegnate e impotenti agli sbarchi di tunisini, africani ed eritrei a Lampedusa e a Pozzallo? Cosa sta facendo il Governo italiano di fronte alla sempre più invadente presenza dei turchi e dei russi al largo della Libia e della Tunisia? Sarebbe questo, ad esempio, un campo in cui dispiegare tutta la propria abilità diplomatica per consentire a un’ipotetica Macroregione del Sud di rivendicare la sua collocazione strategica nel bacino del Mediterraneo. 

In poche parole, le persone di buon senso si chiedono perché nel cortile di casa nostra devono scorrazzare indisturbati i francesi, gli americani e ora anche i turchi e i russi e noi italiani dobbiamo stare a lì a fare le tre scimmiette che non vedono, non parlano e non sentono? Manca al Mezzogiorno una sua identità istituzionale e soprattutto un suo alto profilo di Macroregione europea. Per avviare questo percorso, forse è giunta l’ora di superare i localismi, i campanilismi e quel malinteso senso delle identità che ci condanna a vivere deboli, distanti e senza voce in capitolo. Se continuiamo a ragionare con gli schemi del passato, è molto difficile che un potentino possa rinunciare alla sua “specificità” identitaria per aggregarsi ai napoletani. Eppure la distanza tra Napoli e Potenza è di gran lunga inferiore a quella tra un capo e l’altro di Los Angeles. Quella tra Matera e Bari forse è paragonabile a quella di due grandi aree metroplitane come Roma e Parigi.  Il bello è che non stiamo parlando di realtà territoriali che vivono in chissà quale pianeta. Le Macroregioni già esistono in Europa. Tanto per incominciare c’è la Macroregione del Mar Baltico (EUSBSR), adottata dal Consiglio Europeo nel 2009. C’è quella del Danubio (EUSDR), istituita nel 2010. C’è quell’Adriatica e Ionica (EUSAIR), nata nel 2014. E infine c’è l’ALPINA, istituita nel 2015. Per concludere, è così difficile, ora che la pandemia sta sconvolgendo luoghi comuni e antiche certezze, che anche il Mezzogiorno possa costituirsi come una forte e autorevole Macroregione Europea? Il mondo sta cambiando. Il terzo millennio ci riserverà tante sorprese. E noi, italiani e meridionali, non possiamo, come al solito, arrivare sempre per ultimi ai grandi e decisivi cambiamenti della Storia.

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