venerdì, 29 Marzo, 2024
Attualità

Il Paese del “ma”

Nei titoli dei giornali è sempre più diffuso l’uso della congiunzione coordinativa di tipo avversativo “ma”.

In particolare, la troviamo tutti i giorni nei titoli che riguardano i dati sulla diffusione dei contagi. Si usa il “ma” quasi sempre per attenuare -in qualche modo- la portata della frase che la precede. Qualche esempio: “Aumentano i contagi. Ma più tamponi” oppure “Più ricoveri in terapia intensiva, ma meno morti”.

Per contrastare l’ansia da pandemia si ricorre a questo espediente per addolcire l’amaro delle notizie negative. Però non si tratta solo di questo. Dietro l’uso del “ma” si cela un’attitudine degli italiani a tentare di ammorbidire le situazioni negative per non guardare in faccia alla realtà.

È una tendenza che fa il paio, con quella, contraria, ad essere ipercritici su tutto e a vedere solo ciò che non funziona e che va male.

Italiani Cassandre incoerenti? Non proprio.

Se si guarda a come il nostro Paese si è misurato nel corso degli ultimi decenni con i suoi problemi, si nota la tendenza al rinvio, a pensare che tutto in qualche modo si aggiusterà da solo e che è meglio non calcare troppo la mano nel prefigurare scenari negativi. È prevalsa una sorta di ottimismo con gli occhi bendati, poco responsabile che ha scaricato sulle generazioni future, per esempio, il fardello di un enorme debito e ha paralizzato qualsiasi tentativo di riforme serie e radicali.

Nessuna lungimiranza e nessuna visione ampia e coerente ha caratterizzato le decisioni pubbliche e gli atteggiamenti dei cittadini negli ultimi 40 anni.

Altro che Cassandre!!

Nel contempo si è imposta una lettura distruttiva e quasi nihilista di ogni tentativo riformatore: un po’ per tutelare interessi corporativi, un po’ per la voglia di criticare tutto senza proporre nulla e per il vezzo di enfatizzare solo e sempre gli aspetti negativi rispetto a quelli positivi di qualsiasi decisione o proposta.

Insomma ci descriviamo la realtà come ci fa comodo, non ci mettiamo davanti allo specchio per evitare di vedere i nostri difetti, preferiamo raccontarci storielle che ci tranquillizzano ed evitiamo ogni forma di confronto con i fatti.

Prigionieri della nostra “comfort zone” smettiamo così anche di pensare e usiamo l’ipercriticismo non per migliorare proposte e decisioni ma per evitare che esse ci svegliano dal nostro sonnellino piacevole e, a suo modo, alienante.

Quando siamo sbattuti di fronte all’emergenza, come è successo a marzo con le migliaia di morti per e con Covid, ci svegliamo di soprassalto, reagiamo forse meglio di qualunque altro popolo. Ma non appena la tensione cala ecco che ricominciamo a giocare a nascondino con la realtà.

Da qui il ricorso all’effetto placebo del “ma”, che non cura nulla, non modifica i dati nudi e crudi con cui dovremmo fare i conti. Serve solo a mantenerci in uno stato sonnacchioso che ci aiuta a difenderci dalla realtà ripetendoci la filastrocca che tutto sommato anche quando le cose vanno male, c’è sempre qualche elemento che giustifica il nostro rifiuto a prendere sul serio i problemi.

È vero che l’elasticità è la nostra principale virtù che ci ha consentito nei secoli di sopravvivere ed adattarci a tutto. Ma, e stavolta la congiunzione avversativa è d’obbligo, il mondo è cambiato, è diventato più spietato e i problemi che oggi preferiamo attenuare artificialmente per non svegliarci dalla pennichella rischiano di diventare incubi seri… e allora non c’è “ma” che tenga.

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