venerdì, 29 Marzo, 2024
A cuore aperto

Il cuore sopra ogni cosa. Vincenzo Bernardo, un medico del nostro tempo

Il dottor Vincenzo Bernardo ha gli occhi ardenti e le mani ferme. Durante l’intervista capisco perché le sue pupille sembrano percorse da un’acqua calda che scorre, mentre le sue dita restano immobili, come una freccia tenuta saldamente dall’arciere prima di scoccarla, quando il silenzio attento con cui ascolta le mie domande non si scioglie ancora in risposta. Quando Vincenzo inizia a parlare, occhi e mani acquistano percorso e direzione, il disegno che tratteggiano è quasi una parola gemella, una geografia precisa degli altri esseri umani di cui mi racconta. I pazienti sono sempre il soggetto del suo parlare, non lo è la malattia, non lo è il ruolo professionale, non lo è la competenza accademica. Nell’ascoltare quest’uomo, percorrendo a ritroso la sua biografia, mi è impossibile distinguere tra l’uomo e il medico, come mi è impossibile distinguere tra il suo operato e i pazienti che cura. Vincenzo mi appare simbiotico rispetto ai malati che a lui si rivolgono per essere soccorsi, e di tutti mi parla chiamandoli per nome. Il mistero è dipanato: questo medico porta dentro gli occhi e nelle mani il fluire delle altrui vite, non semplicemente se ne assume una transitoria responsabilità, al contrario, sa sentirle dentro di sé. È un cardiologo interventista, uno di quelli che conosce quanto sia prezioso, quando si parla di malattia cardiaca, ogni granello di sabbia che attraversa la clessidra. Forse è il tempo  il suo unico rivale. Vincenzo Bernardo è il medico, per tutto ciò che dell’essere medico è fondativo e che leggo chiaro e presente in quest’uomo. 

Il dottor Vincenzo Bernardo

Vincenzo, cosa puoi dirmi sulla situazione del covid19?
“È stato un fulmine a ciel sereno, un virus che ha messo in ginocchio il nostro intero sistema e le nostre vite, mettendo in crisi tutte le nostre capacità cliniche, conoscitive, fisiche. Noi medici abbiamo dovuto combattere usando il nostro stesso corpo come scudo. Davvero, almeno nella fase iniziale abbiamo combattuto una battaglia a mani nude, fronteggiando con la nostra persona l’infezione, con qualsiasi livello di criticità. Bisogna tener conto che noi cardiologi dell’Unità Operativa di Cardiologia, UTIC e Emodinamica, siamo un reparto aperto, siamo un reparto di emergenza. Intendo dire che un paziente in crisi cardiaca arriva in pronto soccorso e immediatamente lo trasferiamo in reparto per le procedure salvavita. Non abbiamo tempo di indagini, tamponi ed esitazioni. La nostra è una corsa contro il tempo. Di conseguenza, la nostra esposizione al contagio si moltiplica. E’ stato molto duro dover isolare il malato nella propria stanza, limitare la comunicazione, il contatto umano con lui. Questo per me ha significato rimettere in discussione la mia professione, perché mi sono sentito limitato in ciò che esige il poter essere un medico”.

Conosco Vincenzo e so bene quanto l’assenza di contatto umano col paziente lo abbia provato. Prima di continuare con le domande, la mia mente corre a un ricordo che lo riguarda. Vincenzo in reparto aveva salvato un uomo di mezza età da un infarto, e questi, quando era ormai al sicuro in corsia, vedendo il medico passare davanti alla stanza di corsa, perché schiacciato tra diverse emergenze, gli aveva domandato di poter scambiare due chiacchiere quando si fosse liberato dagli impegni. Inizialmente Vincenzo, non per cattiva volontà, ma preso da contingenze e stanchezze di fine turno, aveva glissato la richiesta. Qualche sera dopo, finisce il turno, passa il cartellino, si cambia e esce dall’ospedale, poi sale in macchina, imbocca la superstrada che lo riporta dopo ogni turno dalla sua famiglia, che vive a quasi 100 kilometri. Ma è turbato, qualcosa gli fa rumore dentro. Accosta l’auto, si ferma. Decide che non sta servendo bene il suo lavoro, i suoi valori, allora inverte il senso di marcia e rientra in ospedale, dove raggiunge il suo paziente. Si siede sul suo letto e gli dice “eccomi, ti ascolto”. Poi l’ho ascoltato raccontare pubblicamente quell’episodio, in una conferenza, concentrando l’attenzione della platea, che si aspettava l’enunciazione di pratiche salvavita d’avanguardia, che pure porta avanti spendendosi fino allo spasmo, sulla responsabilità del sostegno emotivo al malato. 

Hai avuto paura di contrarre il Covid19?
“In realtà ad un certo punto pensavo di essere malato. Sono risultato positivo ad un primo tampone ed ho passato giorni terribili, ma dopo due settimane e 4 tamponi negativi, il primo test si è rivelato un falso positivo. Questo mi ha consentito di tornare in ospedale a fare il mio dovere. Sono rimasto comunque lontano dalla mia famiglia per due mesi. Mia moglie e i miei bambini di 4 e 7 anni, insieme ai familiari di tutti i colleghi medici in prima linea, sono le vittime collaterali di questa situazione di pandemia, le nostre famiglie hanno sofferto moltissimo. Nonostante questo i miei bambini mi hanno incoraggiato e motivato, con parole, disegni e donandomi, prima di lasciarci, i loro soldini, che ai loro occhi costituiscono un tesoro, per donarli “ai malati che non hanno il necessario per curarsi”. Anche questo ha sostenuto la mia presa di posizione”.

Qual è la scelta che ti sei trovato a fare?
“Ho risposto alla chiamata per i medici per l’emergenza Covid19 al nord. Sono tra coloro che possono essere chiamati da un momento all’altro. Ma non desidero si parli di eroismo. È altra la mia fede. Nonostante avessi tutto da perdere, mia moglie, i miei bambini piccoli, i valori in cui credo e l’unico messaggio che desidero trasmettere ai miei figli non è l’eroismo, ma di credere nei valori fondativi dell’essere umano, l’altruismo, la disponibilità per il prossimo, il donarsi. Sentimenti che valgono più di ogni altra cosa. Vorrei insegnare con la testimonianza fattuale la necessità di andare fino in fondo in ciò che si crede”.

Qual è il messaggio più importante che vuoi dare attraverso queste pagine al pubblico?
“Prima di tutto il cuore. Prima di tutto bisogna occuparsi del cuore. La patologia cardiaca, ricordiamolo sempre, rappresenta la prima causa di mortalità a livello mondiale. La tempestività di accesso al pronto soccorso è fondamentale. Conoscere, tutti, le manovre di primo soccorso è fondamentale. La diagnosi precoce è fondamentale. Purtroppo il terrore di infettarsi di Covid19 ha fatto esitare molti pazienti dal recarsi, al primo segnale di sofferenza cardiaca, in ospedale e, purtroppo, insieme alle società scientifiche stiamo raccogliendo dati drammatici. In questi giorni ho avuto un paziente che, avendo evitato di ricorrere tempestivamente alle cure ospedaliere, ha avuto un infarto di entità gravi che hanno compromesso molto la qualità della sua vita. Vi assicuro che guardare negli occhi una persona che sta morendo mentre ti chiede aiuto è un’immagine che si imprime per sempre negli occhi. Non abbiate paura di chiamare immediatamente i soccorsi al primo sintomo, in gioco c’è la vita. Infine, chiedo a tutti di sostenere sempre i ragazzi che desiderano diventare medici, sono il nostro patrimonio più grande”.

Stavolta le ultime parole le scrivo io per lui, perché quest’uomo, che rifiuta categoricamente ogni occasione per incensarsi, ha messo a punto e pratica delle tecniche di avanguardia nell’Ospedale San Camillo De Lellis di Rieti, come il Rotablator e la plastica valvolare trans-catetere, che fanno la differenza tra la vita e la morte in emergenza, quando un intervento chirurgico non è sostenibile. Chi sarebbe diventato si evince dai suoi ringraziamenti, già ai tempi della tesi: ai suoi insegnanti; a sua madre, suo padre e suo fratello, ispiratori e medici esemplari; alla sua Chiara, oggi sua moglie; alla fede in Dio, fine della sua esistenza. 

Vincenzo Bernardo, una vita per il cuore, un uomo esemplare. Un medico del nostro tempo.

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