venerdì, 29 Marzo, 2024
Il silenzio delle parole

Un migrante fortunato

Tu proverai sì come sa di sale. Lo pane altrui, e com’è duro calle. Lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale

Dante, Paradiso, XVII, vv 58-60

Nel settembre del 1960 vidi per la prima volta Porta Nuova, la stazione centrale dei treni a Torino. Era mattino, la temperatura era fresca e il cielo mi appariva di un grigio ai miei occhi inospitale, comunque strano e diverso da quello che avevo lasciato. La stazione risuonava di voci straniere, le voci piemontesi dei facchini in divisa con berretto garibaldino – “Nduma”, “Monssu”, “Madamin” – e quelle della babele dialettale di tanta povera gente spaesata e intimorita, da poco scesa dal Treno del Sole. Su Via Sacchi assistetti alla prima scena di organizzazione tayloristica del lavoro torinese, almeno tale appariva ai miei occhi, quelli di un bambino di appena sette anni appena sbarcato dalla Sicilia. Ovvio che la riflessione sul taylorismo è successiva di molti anni ma fedele alle sensazioni d’allora: un ordine non di “casa nostra”, nuovamente straniero; una fila silenziosa di taxi e tanti meridionali vocianti con le note scatole di cartone e sacchi di cibarie che non potevano attendere, credo, per via di una fame antica. Difficile disciplinare l’attesa dei taxi ma un autorevole “senso del dovere” sabaudo, invisibile, silenzioso, sconosciuto sembrava sostituire in qualche modo il disordine scomposto e pittoresco di quella folla senza regole apparenti.

Provavo confusamente un turbinio di sensazioni e sentimenti e cominciai subito con i miei ragionamenti e con l’organizzazione dei miei file. Dominava in me un senso di orgoglio tradito, non accettavo questo confronto tra il decoro disciplinato di chi si accingeva ad ospitarci, e la follia anarcoide di quel popolo straccione, il mio orgoglio di siciliano soffriva. Ma era solo l’inizio di un anno molto difficile. Era la Torino della prima ondata migratoria, anno davvero ostico, per cominciare la temperatura, così diversa da quella della Sicilia.

Però durante quel tempo io non fui un vero immigrato, mi proteggeva la signorile reputazione di mio padre Gioacchino, un siciliano particolare, molto apprezzato dai torinesi per la sua capacità di intrattenere rapporti di rispetto formale. Lo stesso succedeva con la nonna Concetta, anziana e con marcato accento siciliano ma dai colori e dalla figura bergmaniana, sobria, bella ed elegante, con un italiano parlato così educato.

Il maestro di scuola, era un tipo molto tradizionalista, narrava di continuo le virtù sabaude. Questa insistenza la vivevo come inospitale e insopportabile, ma credo che il signor maestro avesse una sua attenuante: osservava terrorizzato l’invasione di Torino e forse intendeva a modo suo difendere l’identità culturale e la storia. D’altronde io stesso, così piccolo, ero mortificato di far parte di quel fenomeno migratorio, e forse la posizione del mio maestro era quella di chi il fenomeno lo subiva impaurito, come l’esondazione di un fiume in piena. L’esperimento familiare … durò tutto l’anno scolastico e finì con il mio ritorno a Palermo, dove crebbi. Nel settembre del ’70, mio padre e io demmo seguito ad un secondo esperimento familiare.

Era il mio quarto anno di liceo scientifico. Papà ed io ci eravamo imbarcati in nave a Palermo, destinazione Genova, era il 17 settembre, e appena partiti sentimmo via radio, seduti al bar, del sequestro del giornalista Mauro De Mauro, crimine che fin dal primo momento si palesò di chiaro stampo mafioso. Papà imprecava a bassa voce contro la Sicilia e i siciliani. Con il passare degli anni lo vedevo sempre più schierato su questa deriva anti-siciliana e la cosa mi feriva profondamente, la trovavo sbagliata nei confronti della nostra gente meravigliosa. Divenne con il tempo uno dei contrasti più forti tra noi, io sicilianissimo, fiero e anti-mafioso, lui anti-mafioso ma così ferocemente anti-siciliano. Non potevo giustificare questa sovrapposizione Mafia-Sicilia, la risposta era nella sua sofferenza da esule … ma io non potevo accettare quella semplificazione, quella lettura del mondo e sapevo di avere ragione.

Ci separavano due linguaggi distanti, difficile declinarli in una sintesi (Testo rivisitato e ridotto, tratto dal libro dell’autore Il viaggio più lungo).

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