giovedì, 18 Aprile, 2024
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I permessi premio ai boss irriducibili? Una decisione bizzarra della Consulta

È argomento, in queste ore, di polemiche e di discussioni la pronuncia della Consulta, con la quale si ritiene incostituzionale negare i permessi dal carcere ai mafiosi che si sono rifiutati di collaborare con la giustizia,  a meno che non si dimostri che coltivano ancora collegamenti con la criminalità organizzata.

Il ricorso è stato azionato da due ergastolani, che si erano visti appunto negare il permesso premio, adducendo alla base della richiesta l’ottimo comportamento tenuto in carcere in questi anni.

Orbene, per sgomberare il campo da ogni equivoco, è bene chiarire subito che questa pronuncia ci sembra scandalosa e cercheremo di spiegare i motivi che a nostro parere giustificano un giudizio così severo.

Tutto prende le mosse dalla Corte europea per i diritti dell’uomo che ha bocciato il ricorso del governo italiano avverso una pronuncia che dava ragione ai due ergastolani, che avevano lamentato come il carcere duro fosse un trattamento inumano e degradante e contrario ai principi sanciti dai diritti umani. La Cedu ha nei fatti bocciato l’articolo 4 bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia.

In parole povere, secondo i giudici di Strasburgo, la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora non può essere “assoluta”, e, secondo i giudici italiani della Consulta dovrà essere discrezionalmente valutata dai magistrati di Sorveglianza (con un aggravio di responsabilità per questi ultimi fuori dal comune).

Un magistrato che di mafia se ne intende, Giancarlo Caselli sostiene che i mafiosi irriducibili, in detenzione al 41 bis, hanno giurato fedeltà perpetua all’associazione criminale e se non si sono pentiti, vuol dire che non hanno alcuna volontà di reinserimento e di redenzione, che sono i requisiti tangibili per far comprendere che la pena come funzione rieducativa ha raggiunto il suo scolpo nei loro riguardi.

Una valutazione sensata che dovrebbe eliminare ogni dubbio concreto sulla inapplicabilità di queste misure a criminali incalliti e irriducibili e che avrebbe probabilmente avrebbe dovuto toccare anche le corde dei supremi giudici costituzionali. Del resto basta leggere le reazioni dei parenti delle vittime (Rita Dalla Chiesa in primis) di questi “teneri agnellini” che rivendicano i permessi-premio per rendersi conto dell’enormità della decisione.

Ecco perché per rendere efficace il nostro ragionamento occorre allargare il campo a considerazioni di più ampio respiro.

Un ordinamento giuridico, per quanto obbligatoriamente inquadrato nella cornice invalicabile della Magna Carta, riflette inevitabilmente il comune sentire di un popolo, i sommovimenti di una società in continua evoluzione, persino le istanze contingenti che, alimentate mediaticamente da gruppi sociali e politici, assurgono al ruolo di emergenze.

Un esempio può chiarire l’assunto: l’odioso reato della corruzione (e tutti i reati similari) sta assumendo grazie alla battaglia compulsiva del 5 Stelle una valenza straordinaria, probabilmente sovradimensionata rispetto all’allarme e al danno sociale che effettivamente provoca. Un allarme e un danno ingentissimi, per amor del Cielo (qui si rischia di passare per difensori dei corrotti, occorre mettere i punti sulle i), ma assolutamente non paragonabili ai guasti decisamente superiori determinati da altri e più aberranti reati.

Non a caso il codice penale, non solo quello italiano, gradua l’entità delle pene sulla base della gravità del reato (principio di civiltà indiscusso) e la corruzione, ripetiamo reato odioso e disdicevole, da combattere sempre e comunque, non può essere paragonato ai guasti che producono reati come l’associazione mafiosa, il terrorismo, l’omicidio e in particolare il femminicidio che tanto “va di moda”, il sequestro di persona, la tratta di esseri umani, la pedofilia, lo stupro, lo spaccio di droga. Eppure in questo momento storico la corruzione (ed oggi anche l’evasione fiscale, altra cancrena del nostro paese) è visto come il male assoluto e contro di esso è concentrato tutto o quasi l’impegno diuturno del giovane ministro della Giustizia Bonafede, spalleggiato dal suo mentore Di Maio.

Ma se la corruzione, male assoluto ha soppiantato temporaneamente agli occhi dell’opinione pubblica manipolata dai media nella classifica della gravità i reati di mafia (compresi omicidi tremendi, racket, estorsioni, traffici di droga), per fortuna non ha ancora prodotto un’inversione di gravità nella graduazione delle pene (i 5 Stelle non arriveranno a tanto nemmeno con il tintinnio di manette minacciato per l’evasione fiscale). E soprattutto non può produrre agli occhi degli italiani che ancora hanno cervello per ragionare l’oblio.

Come si possono dimenticare gli attentati esplosivi che hanno polverizzato magistrati come Chinnici, Falcone e Borsellino e le loro scorte, come si possono dimenticare tutti gli altri atroci delitti commessi ai danni di tanti altri ed in molti casi anche alti servitori dello Stato (la lista sarebbe lunghissima), come si può dimenticare l’assassinio del piccolo Di Matteo per un paio di anni sequestrato e poi sciolto nell’acido. E come si può dimenticare l’eliminazione da parte della camorra del giovane cronista del Mattino Giancarlo Siani che aveva dato fastidio con i suoi reportage al malaffare criminale dell’hinterland napoletano?

E parliamo di Siani come della parte per il tutto, senza dimenticare gli altri giornalisti uccisi perché non disponibili a chiudere gli occhi. E come si possono dimenticare i guasti che questi delinquenti hanno prodotto nel mondo dei giovani, avendo elevato a loro principale traffico il lucroso commercio della droga?

Ebbene gli illuminati giudici della Cedu, che raggruppa magistrati e giuristi di tutti i paesi della Comunità hanno la percezione di che cosa voglia dire in Italia lasciare che Cutolo, Santapaola e altri galantuomini come loro, che non si sono mai pentiti e che hanno seminato solo morte passino qualche giorno di libertà a spassarsela con i loro familiari perché l’ergastolo ostativo è insopportabile ed è contrario alla finalità di rieducazione della pena ed è contrario ai diritti umani? Sono al corrente della specificità criminale della mafia? Come si può pensare che criminali irriducibili e che in carcere se ne stiano stati buoni, possano godere di permessi premio perché l’ergastolo a vita è duro per loro da sopportare? Ma stiamo scherzando! I buonisti di “Nessuno tocchi Caino” sta già elevando alti lai. Andate a chiedere un parere ai parenti delle vittime.

Basta peraltro solo andarsi a spulciare il profilo criminale di uno di coloro che attraverso i legali hanno invocato il responso della Consulta per rendersi conto della stravaganza di questa decisione. Si chiama Sebastiano Cannizzaro, è un boss di primissimo piano della mafia della Sicilia orientale, reggente del clan Santapaola dopo l’arresto del boss che h adato il nome al clan. Fu arrestato nel 2007 in esecuzione di una condanna all’ergastolo rimediata con sentenza passato in giudicato per due omicidi, soppressione di cadavere e detenzione abusiva di armi.

Per la verità lo avevano arrestato anche prima, ma era stato scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare e se l’era data a gambe. Un signore del tutto affidabile, quanto a profilo criminale e quanto a serietà di intenti. Il suo compagno di avventura in questa richiesta alla Consulta è tale Pietro Pavone, altro ergastolano, condannato in quanto appartenente alla ‘ndrangheta.

Loro certamente si agevolerebbero da un’eventuale modifica del regolamento carcerario che adottasse questa decisione fantasiosa della Corte Costituzionale. Ma fra i 1106 condannati all’ergastolo duro ci sarebbero anche personaggi come Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano (quelli delle stragi del 1993), Raffaele Cutolo, Sandokan Schiavone, Michele Zagaria, Domenico e Girolamo Molè. Allegria.

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