sabato, 20 Aprile, 2024
Attualità

C’erano una volta i politici

In seconda serata, martedì sera in televisione ho ascoltato dei discorsi molto interessanti.

Si è parlato dell’inadeguatezza del PIL ad essere uno strumento efficace a misurare la solidità di un Paese perché comprende l’inquinamento e la trasmissione di programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti ai bambini; non tiene conto del numero di reclusi nelle nostre carceri, del nostro intelletto, della nostra compassione, del nostro coraggio, della salute delle nostre famiglie, della qualità dell’educazione; non comprende la bellezza della poesia o la solidità dei valori familiari… può dirci tutto sul Paese, tranne se siamo orgogliosi di appartenervi.

Si è posta poi l’attenzione sul sistema del welfare, ossia sull’assistenza pubblica a coloro che sono in difficoltà. L’oratore ha fatto notare come il sistema del welfare sia in crisi e rappresenti molte cose diverse per persone diverse.  Infatti, per coloro che ricevono il servizio può essere la differenza tra la vita e la morte, tra un’abitazione e l’essere senza dimora, tra il vento freddo ed il cappotto di un bambino. Per il contribuente, che vede le conseguenze dell’inflazione sul costo della vita e che paga per la propria casa, il welfare può apparire come un ingiustificato sovraccarico su un sistema tributario già opprimente. Per alcuni politici, pronti a ricorrere a semplificazioni e a confondere le idee sulla questione, può essere un mezzo per ottenere facilmente popolarità.

E’ stato illustrato come sia un mito che tutti i problemi della povertà si possano risolvere con una definitiva estensione del sistema di welfare che garantisca a tutti, indipendentemente dalla loro situazione particolare, un certo reddito e che la soluzione alla crisi del welfare possa essere il lavoro, l’impiego, l’autosufficienza e l’integrità della famiglia; non una massiccia estensione del welfare; non un nuovo flusso di assistenti sociali che diano consigli ai poveri ma il lavoro, un impiego che restituisca dignità con una paga decente.

Un affascinante quarantacinquenne ha poi condiviso i motivi che lo hanno portato a scendere in campo: non per opporsi a qualcuno ma per proporre nuove politiche; politiche che prevedano la fine degli spargimenti di sangue nelle città, che permettano di colmare il gap che esiste adesso tra ricchi e poveri, giovani e vecchi. Ed ha continuato il suo discorso appassionato e coinvolgente dichiarando il desiderio per il proprio Paese di essere un baluardo di speranza anziché di disperazione, di riconciliazione tra gli uomini piuttosto che essere coinvolto nelle guerre, di impegnarsi a scoprire quello che promette il futuro.

Infine, egli fa un appello affinché si conosca e si esamini quali errori sono stati commessi per costruire un paese migliore poiché la risposta ai problemi non risiede nella forza, nella repressione e nelle scorte private di armi: tra concittadini non bisogna confrontarsi attraverso insuperabili barriere di ostilità e di diffidenza ma bisogna lavorare insieme, senza doversi sparare reciprocamente, colpirsi reciprocamente, maledirsi reciprocamente e accusarsi reciprocamente. Dobbiamo capire che tipo di nazione siamo e in che direzione vogliamo muoverci: possiamo riempire i nostri cuori con sentimenti di odio e di amarezza ed un desiderio di vendetta, neri contro bianchi o possiamo fare uno sforzo per capirci e comprenderci con compassione e amore.

Quello che ho ascoltato mi ha fatto riflettere, peccato che fosse una miniserie trasmessa da Netflix sul defunto Senatore degli Stati Uniti d’America Robert F. Kennedy ed, in particolare, quelli descritti fossero gli argomenti dei suoi discorsi durante la campagna per la nomination presidenziale democratica pronunciati nel 1968.

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