E’ sera e Kurt è appena tornato da una visita a Trieste, dove è stato spinto dalla curiosità di capire le ragioni per cui i lavoratori di quel porto sono in prima linea contro l’obbligo di Green Pass: è stanco e bagnato dal maltempo, proprio come un qualunque essere umano e come uno di loro manifesta il suo cattivo umore, raccontandomi di aver visto più uomini in divisa che manifestanti e mi confessa – pur con qualche esitazione – di non essere riuscito a comprendere le ragioni per cui anche passeggiare nella piazza centrale della città rischia di esser qualificato come atto eversivo.
“È l’effetto del bilanciamento fra diritto di manifestare il proprio dissenso e dovere di astenersi da comportamenti che possano far risalire i contagi“ Gli dico, rendendomi subito conto che questa mia spiegazione non lo convince; allora cambio strategia argomentativa e gli ricordo che quello del bilanciamento fra diritti e doveri è problema che – nella storia del pensiero politico europeo – ha avuto approcci alternativi: talvolta assumendo come punto di partenza i primi, talaltra i secondi.
A titolo puramente esemplificativo, cavo dallo scaffale un Pamphlet di Giuseppe Mazzini intitolato a “I doveri dell’uomo “, è datato 1861 (quando l’unità d’Italia era ormai sul punto di compiersi) e si fondava sull’idea socialista secondo cui l’eccessiva attenzione posta sui diritti individuali stesse progressivamente privando le persone della protezione che i vincoli sociali avevano assicurato a tutti loro e non solo agli appartenenti alla borghesia trionfante di quel periodo.
Di qui, scriveva Mazzini, la necessità di individuare “ un principio educatore superiore che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”: questo principio si concretizzerebbe appunto nel “dovere di combattere l’ingiustizia”, quale onere che viene prima di ogni diritto e che – 85 anni dopo – avrebbe influenzato tutta la successiva pubblicistica, anche quella che condusse alle scelte operate dall’Assemblea Costituente soprattutto con riferimento all’indipendenza del pubblico ministero, stabilita dall’articolo 107, comma 4, della Carta.
Il Marziano è sembrato particolarmente colpito da questo mio richiamo e non meno dalla scelta, abbastanza inusuale rispetto alla legislazione dei Paesi aderenti all’Unione Europea, di equiparare giudici e accusatori e così ho dovuto ricordargli che la formulazione del suddetto comma (“ il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario “ ) risultò frutto della mediazione fra chi voleva mantenere un legame di dipendenza del p.m. con il Ministro della Giustizia e chi pretendeva invece di garantirne l’assoluta indipendenza rispetto a qualunque altro potere.
La scelta finale fu un compromesso: rinviare alla legge ordinaria la previsione delle garanzie di indipendenza del pubblico accusatore, lasciandone indefinito il ruolo e – come tutti i compromessi – quest’ultima opzione si rivelò un disastro, le cui conseguenze tuttora sopportiamo.
Il magistrato inquirente infatti – a differenza di quello giudicante – è privo del requisito di terzietà che ne possa giustificare le guarentigie, prima fra tutte quella dell’irresponsabilità (come ben sanno, purtroppo, coloro che hanno subito misure cautelari astutamente proposte da chi li indagava e superficialmente accolte da giudici per le indagini preliminari perlomeno ignavi: ignavia e superficialità che non avrebbe dato luogo ad alcuna sanzione e tantomeno a risarcimento dopo che un processo “vero” avesse finalmente accertato l’irragionevolezza o l’inutilità di quelle misure afflittive), ma purtroppo la pubblicistica ha da tempo effettuato una completa quanto erronea equiparazione fra il magistrato e il giudice, né la separazione delle carriere è stata mai seriamente presa in considerazione dal Parlamento.
A questo punto però Kurt mi ha fatto notare che stavo allontanandomi dal problema che lui mi aveva posto: quello della libertà di manifestare in forma collettiva il proprio dissenso dalle scelte politiche adottate dal Governo al dichiarato fine di contenere la pandemia in atto.
“È vero – ho replicato – ma è altrettanto vero che la libertà non basta enunciarla come diritto, ma occorre anche approntare strumenti giudiziari che ne garantiscano l’effettività di esercizio ed è ben difficile ottenere tale garanzia ad opera di chi preferisce promuovere l’azione penale violando egli stesso diritti di libertà ben più consistenti di quello leso con il divieto di manifestare.”
Ho poi ricordato al Marziano che i più importanti istituti di ricerca che si sono dedicati a fotografare lo stato delle libertà nei paesi colpiti dalla pandemia sono concordi nello stabilire che il mondo sta da tempo scivolando verso l’autoritarismo; basti ricordare l’ultimo rapporto della Freedom House (Centro di ricerca americano, fondato nel 1973, per monitorare il rispetto dei diritti politici e civili nelle diverse parti del mondo) secondo cui i difensori della democrazia vedono da oltre 15 anni il declino delle tradizionali libertà.
“Sta forse tornando la tirannia?”, mi ha chiesto provocatoriamente Kurt.
Lascio ai lettori immaginare quale sia stata la mia risposta.