martedì, 30 Aprile, 2024
Economia

Una riforma fiscale per dare fiducia al cittadino

Sono passati 50 anni e la legislazione sul fisco non prende pace; ogni Governo fa la sua riforma ed oggi il Governo Draghi, il 67esimo dalla nascita della Repubblica, parla ancora del fisco da riformare.

Speriamo che sia la volta buona viste le qualità del Presidente del Consiglio e quella del Ministro dell’Economia e delle Finanze.

Nel tempo sono stati effettuati continuamente aggiustamenti ed interventi di adattamento alle esigenze del momento, alterando principi e presupposti sulla capacità contributiva e sulla progressività  di cui all’articolo 53 della Costituzione.

Lotta all’evasione, riduzione della pressione fiscale ed “un fisco amico del contribuente” sono sempre state le promesse di tutti i governi che si sono alternati dalla nascita della nostra Repubblica. Ogni governo ha sempre manifestato buone intenzioni ma spesso non sono seguiti i fatti, facendo aumentare le ingiustizie e con esse il dannato contenzioso tributario.

In realtà, le esigenze per far quadrare i conti – avere a che fare coi numeri del bilancio dello Stato è come indovinare una cinquina al gioco del lotto – ed assicurare quel necessario gettito di entrate, impongono  scelte così dette di  “lacrime e sangue”.

A pagare un prezzo sempre più salato sono i soliti lavoratori a reddito fisso ed a farla franca sono altrettanto i soliti che possono assumersi certi rischi, confidando sulla inefficienza ed intempestività della macchina della Pubblica Amministrazione e del suo farraginoso, tortuoso e lungo  procedimento di accertamento, liquidazione ed esazione delle imposte.

Eppure di riforme e di tentativi di recuperare imposte, tasse e contributi – nel tempo – ve ne sono stati parecchi ad opera dei vari Governi e  Ministri delle Finanze che si sono succeduti negli ultimi 70 anni.

La prima fu quella dell’allora Ministro delle Finanze, Senatore della Repubblica, Ezio Vanoni con la sua riforma dell’11 gennaio 1951, nr. 25, ai quali atti parlamentari sarebbe non male darvi uno sbirciatina perché vi potranno essere degli spunti molto utili ed interessanti, quantomeno per non reiterare errori del passato.

Ma un paio di  passaggi è opportuno anticiparli in quanto anche il Ministro Vanoni aveva assunto impegni con se stesso e verso la collettività nel produrre una buona riforma.

Il suo obiettivo mirava ad “esentare dalla tassazione il reddito minimo necessario per una vita decorosa del contribuente e dei familiari a carico” e di “evitare che la tassazione fosse eccessivamente onerosa e, quindi, che non fosse considerata  confiscatoria dello stesso reddito prodotto”.

Pose in essere una puntigliosa progressività con oltre 300 aliquote e relativi scaglioni  (una ogni 500 mila lire),  prevedendo l’ultimo scaglione oltre 500 milioni di vecchie lire con l’aliquota del 65% (vedasi D.P.R. 29 gennaio 1958, nr. 645).

La successiva riforma fiscale è, in realtà, quella vigente – con i numerosi interventi modificativi, per cui dell’originale c’è rimasto ben poco – nata dalla legge delega nr. 825 del 1971.

Inizialmente erano previsti 32 aliquote e scaglioni, prevedendo redditi tassabili oltre i 550 milioni di lire, con l’aliquota corrispondente del 72%. Nel tempo le aliquote ed i relativi scaglioni sono diventati appena cinque che esauriscono la tassazione con l’aliquota del 43% per i redditi oltre i 75 mila euro, di gran lunga inferiore rispetto ai 550 milioni di vecchie lire previsti nella normativa iniziale di 50 anni or sono.

Non sono mancati, nel tempo, rimedi giuridici finalizzati a recuperare a tassazione redditi sottratti con metodi elusivi o con sistemi di frode. A nulla lo spauracchio delle manette agli evasori di cui alla legge n. 516 del 1982 al superamento di certi parametri o di soglia. E neanche hanno sortito grossi risultati gli addetti al SECIT, il famoso Servizio Centrale degli Ispettori Tributari di cui alle  legge n.146 del 1980, ovvero i Nuclei misti formati da polizia tributaria e funzionari delle Imposte o dell’IVA.

L’accertamento delle imposte, dirette od indirette, con le rispettive procedure di riscossione, è un meccanismo complesso che richiede tempi lunghi ed analisi complesse e spesso si giunge a conclusione, contenzioso compreso, con magri bottini per lo Stato.

Ora l’evento epidemico che subiamo da oltre un anno, ha alterato in modo molto negativo l’equilibrio economico del contribuente imprenditore e lo Stato è costretto a rinunciare in tutto od in parte alla pretesa tributaria anche per anni pregressi oltre che per quelli futuri.

È difficile fare una selezione in questo contesto, tra le aziende da salvare e quelle da riconvertire o da proporre per nuovi modelli di attività di imprese.

Alla base di tutto questo urge una riforma tributaria che, fermi restando i principi cardine del citato art. 53 della Costituzione, possa dare fiducia al cittadino e convincerlo all’esercizio del dovere civico di concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva.

Al legislatore spetta l’altro dovere di esercitare il potere di accertamento non con metodi induttivi o con studi di settori, presunzioni od accertamenti tiranni che esasperano il contribuente onesto, sprecando preziose energie da devolvere con tempestività verso le grosse forme di evasione e di frodi fiscali architettate con artificio ed inganno.

 

 

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