mercoledì, 16 Ottobre, 2024
L'angolo della Lettura

A Primavera tornerà l’amore (Un Racconto ispirato a una storia vera)

Splendeva un bel sole, quella mattina di primavera, a Pizzo Falcone. Sul far dell’alba, nelle case dei contadini e nei palazzi dei signori, riprendeva, come sempre, il ritmo lento della giornata. I campi e le botteghe, le vigne e le cantine erano lì, ad aspettare uomini e donne che, già dalle prime ore del giorno, si mettevano all’opera per guadagnarsi da vivere. E allora, nelle strade, come tante ombre animate, sbucavano silenziosi, i contadini e i braccianti, i muratori e i falegnami, gli imbianchini e i calzolai. Osservato dall’alto, Pizzo Falcone, con le case aggraziate e le piazze in penombra, con i suoi grandi slarghi di luce e le piccole vie intrecciate, sembrava  proprio un grande presepe di pietra. E man mano che il giorno avanzava, tutta la sua umanità si espandeva. Col passar delle ore, il ritmo della vita penetrava nelle case e si riversava, ora lieto ora drammatico, in quel piccolo mondo, antico e fatale. Erano belle le strade di Pizzo Falcone. Dritte, luminose, austere. Erano lì da secoli e conoscevano la storia di tutti. Il cuore del paese era lì. Piazza Plebiscito, l’antica  Piazza del Largo e poi Via Fratelli Bandiera e Via Fanti, Via Venita e Via Cesare Beccaria, Via Cavour e Via Mario Pagano. 

Quel giorno, Venerdì 25 aprile 1942, erano in programma in Piazza Plebiscito, due manifestazioni: una grande adunata della gioventù fascista  e la cerimonia dell’Oro alla Patria, dopo le marcette e il saggio ginnico. In Piazza, nonostante si fosse già al terzo anno di guerra, c’era  sempre un po’ di frenesia. Era come un venticello che accarezzava un pò tutti: i giovani balilla e le figlie della lupa, gli avanguardisti e i giovanotti della milizia, ancora troppo giovani per essere chiamati a combattere per il Duce e per la Patria. Nel resto del paese, però, il clima era tutt’altro che allegro. Alla baldanza caratteristica delle adunate fasciste negli anni venti e trenta, si era sostituito, già nel 1940, l’anno della dichiarazione di guerra, un sentimento di paura e di angoscia. Nelle case e nelle botteghe, si avvertivano già le prime avvisaglie di tristi presagi. Si temeva per le sorti dei giovani partiti per il fronte in Grecia, in Albania, in Africa e in Russia. Le paure aumentavano soprattutto per quest’ultima sciagurata campagna di guerra, che il Duce volle combattere a tutti costi a fianco delle armate tedesche.  

Il sogno dell’Impero e dei sacri destini della Patria, si trasformò ben presto in un incubo. Nel giro di pochi anni il clima, nel paese, era cambiato. Fino al 1939, la vita si svolgeva abbastanza tranquilla. Con l’entrata in guerra, nel 1940, cominciarono i guai. L’attività economica si contraeva giorno dopo giorno. Il commercio, un tempo ricco e florido, ristagnava. Dalle campagne non arrivavano più in abbondanza grano e cereali, olio e vino che avevano sempre arricchito i fiorenti commerci del paese.  

Anche la vita civile stava peggiorando e c’era poco da festeggiare. Poche cresime e comunioni. Pochissimi i matrimoni e sempre più rare le feste per i fidanzamenti. Con gli uomini al fronte e con la morte in agguato, le famiglie avevano  ben altro a cui pensare. Per mancanza di medicinali, stava aumentando la mortalità infantile. Si moriva, per un nonnulla, per una polmonite o un’appendicite. Una febbre sospetta e non curata portava subito alla tomba. I festeggiamenti e le processioni per i Santi patroni si svolgevano in tono minore, come se una sciagura imminente stesse per abbattersi sulla cattiveria del mondo. A causa della guerra la povertà aumentava a vista d’occhio, e già in diverse famiglie si cominciava a soffrire la fame. 

Senza gli uomini e i giovani chiamati alla guerra, il paese, si andava svuotando. Nelle case, per le strade e nelle campagne, erano rimasti solo donne, vecchi e bambini. Sembrava che un’intera generazione fosse improvvisamente scomparsa per sempre. E invece erano tutti lì, a combattere per i fasti dell’Impero e per l’Asse Roma-Berlino. Su e giù per il paese, nelle case dei poveri e dei ricchi, dei contadini e dei signori, cominciava a spirare il vento della morte e, pian piano, in tutti gli animi, penetrava  l’infinita  tristezza della perdita e del lutto. 

Tonino Giangrande, quell’anno, non partì per la guerra. Fu tra i pochissimi giovani che rimasero in paese. Convocato tre anni prima alla visita di leva a Matera, fu riformato per insufficienza toracica. Così mingherlino non poteva fare il soldato. Ma se il corpo non lo aveva gratificato, lo spirito lo aveva ampiamente irrobustito. Eccome se lo aveva irrobustito! Era un giovane sensibile e colto. Sapeva leggere, scrivere e far di conto in un mondo dove la stragrande maggioranza di amici e coetanei era analfabeta. Nel tempo, era diventato anche un bravo musicista. Suonava molto bene il clarinetto e per questo era entrato giovanissimo nella banda di Ferrandina. Un complesso musicale considerato, a quei tempi, una delle migliori bande della Basilicata. Per questa sua inclinazione alla musica e soprattutto per la spiccata sensibilità del suo carattere, il padre non lo mandò nelle campagne a fare il contadino o il pastore. Volle per lui un lavoro di tutto rispetto. Nella bottega di Mest’ Salvatore Colatutto, uno dei migliori barbieri di Ferrandina, stimato sia per la sua bravura che per l’amabilità, la gentilezza e la signorilità del suo carattere. 

Il salone che aveva in Piazza, di fronte alla Chiesa Madre, non era solo una barberia. Era molto, molto di più. Un piccolo mondo, un ritrovo ed anche un circolo trasformato, spesso, in un allegro cenacolo musical-letterario.  

Mest’ Salvatore, da giovane, aveva studiato dai monaci benedettini a Cava dei Tirreni. Era una persona colta e sensibile. Non volle farsi monaco, perché si innamorò di una bella ragazza di Pizzo Falcone. E fu così che dopo gli studi ginnasiali, abbandonò il monastero e optò per un mestiere che, a quei tempi, non era alla portata di tutti. Allora, il barbiere  non era  considerato solo un artigiano. Doveva avere altre abilità, altre caratteristiche. In poche parole, doveva avere una marcia in più rispetto agli altri, se voleva sopravvivere ed avere successo. Nei nostri paesi infatti, un bravo barbiere doveva essere innanzitutto un professionista delle pubbliche relazioni. Un gentiluomo dalle buone maniere. E se poi era una persona colta, paziente e sensibile e  sapeva anche  cantare, suonare e recitare,  allora il successo era assicurato. Proprio quello che accadde a Mest’ Salvatore. Così, pur armeggiando tra forbici e macchinette, rasoi e dopobarba, profumi e colonia, continuò a coltivare le sue passioni: il canto, la musica, la lirica. Suonava il violino che era una meraviglia, e in più amava la poesia e la letteratura. 

C’è da aggiungere anche un altro particolare: i barbieri, anticamente, non si limitavano al taglio dei capelli e alla rasatura della barba. Il salone, molto spesso, si trasformava anche in ambulatorio. Si facevano salassi, si cavavano i denti. Ma nel salone di Mest’ Salvatore era l’arte a prevalere e non la medicina. Spesso si improvvisavano concerti, con tanto di violino, clarinetto e fisarmonica. I pezzi più richiesti erano i canti popolari ma anche le canzoni d’amore, le mazurche, le tarantelle, in un crescendo che contemplava nel suo repertorio celebri arie del Teatro dell’Opera.  Mest’ Salvatore era anche un letterato. Conosceva a memoria la Divina Commedia.  Spesso e volentieri declamava terzine mentre faceva la barba e sfoltiva  i capelli. (…)  

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