giovedì, 25 Aprile, 2024
Politica

Lo Stato imprenditore? Sì, se serve a rafforzare il sistema Paese

Lo Stato imprenditore ha ancora senso? In Italia ha avuto un ruolo importantissimo per decenni. L’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) costituito nel 1933 da Mussolini su progetto di Alberto Beneduce. per 70 anni ha rappresentato un bastione centrale dell’economia italiana.

L’industria pubblica italiana ha convissuto con quella privata, nella maggior parte dei casi senza danni per nessuna delle due parti.

L’IRI, nato inizialmente come istituzione temporanea per fronteggiare soprattutto la crisi bancaria di quegli anni, ha avuto due anime: quella strettamente creditizia e quella industriale. L’IRI si è sostituito ai privati nei settori in cui gli imprenditori non erano capaci o non volevano o potevano impegnarsi. Ha avuto quindi anche un ruolo di sostituzione che ha aiutato complessivamente la crescita della struttura industriale dell’Italia.

Nel massimo della sua espansione contava oltre 600.000 dipendenti e centinaia di partecipate. In alcuni periodi di difficoltà economica grave l’IRI è stato l’ammortizzatore di crisi industriali e ha consentito a molte aziende di curarsi e riprendersi.

È stata una scuola di eccellenza per manager efficienti e di grandi vedute che ancora oggi sono apprezzati e molti dei quali rimpianti. Certo ci sono state alcune degenerazioni: un eccesso di assistenzialismo e un cortocircuito non sempre virtuoso con la politica. Ma nella sostanza la macchina funzionava bene.

Poi, all’inizio degli anni Novanta è iniziato uno smantellamento frettoloso e senza strategia che, di fatto, ha ridotto a poca cosa il ruolo dello Stato imprenditore. L’uscita dello Stato da alcuni settori cruciali per l’economia italiana è stato un errore. Pensiamo a quello che è successo per la società della telefonia che negli anni Ottanta era un colosso mondiale e un gioiello di innovazione e che poi, privatizzata in modo sommario e poco chiaro, è precipitata in una crisi finanziaria da cui è ancora appesantita. Altre privatizzazioni, come quella dell’Enel e di alcune banche non hanno portato efficienza nel sistema. Sull’onda di tangentopoli e di alcuni fenomeni più di finanziamento illecito ai partiti che di corruzione, una ventata anti statalista ha messo in vendita a prezzi non sempre congrui gioielli di famiglia. Si diceva che questo centinaio di miliardi di euro ottenuti in oltre 15 anni di privatizzazione avrebbero ridotto il debito pubblico, che invece ha continuato a crescere.

È mancato un progetto di politica industriale all’interno del quale si doveva privatizzare ciò che lo Stato non era in grado di gestire meglio dei privati e ciò che non rivestiva importanza strategica. Telecomunicazioni, autostrade, poche banche e alcuni campioni del settore alimentare, manifatturiero e della distribuzione dovevamo restare in mano pubblica ed essere gestiti con criteri di efficienza. Non è stato così.

Oggi la struttura industriale e creditizia dell’Italia, è meno forte di 15 anni fa e continua a indebolirsi. Urge una politica industriale che rafforzi non questa o quell’azienda ma il sistema Italia nel suo complesso che deve essere ben integrato E se a questo fine bisogna investire risorse che i privati non hanno, ben venga un intervento pubblico selettivo e ad alto contenuto manageriale. Non serve un’altra mangiatoia per la politica ma un pilastro portante dell’economia italiana.

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