domenica, 28 Aprile, 2024
Il Cittadino

Il termometro della civiltà giuridica

L’efferato omicidio confessato da Alessandro Impagnatiello ha tutti i requisiti necessari per misurare il livello di civiltà giuridica della nostra società.

Impagnatiello ha confessato di avere ucciso la sua compagna, Giulia Tramontano, di lui incinta di sette mesi. Ha raccontato di avere in corso un’altra relazione con un’altra donna, che, invece, avrebbe interrotto la gravidanza dallo stesso Impagnatiello procurato. Le cronache narrano che le due sfortunate ragazze si erano incontrate e l’una aveva inutilmente messo in guardia l’altra. Si sa anche che il reo confesso avrebbe girato col cadavere in macchina per due giorni, volendo bruciarlo; finendo poi col nasconderlo in un interstizio di un fabbricato abbandonato.

La madre di Impagnatiello, distrutta, ha chiesto scusa per avere messo al mondo quel figlio ed ha detto che lei stessa non lo perdonava per quello che aveva fatto.

La televisione, i social ed ogni attuale mezzo di comunicazione hanno detto del mostro, in tutte le possibili declinazioni. L’unica che ha mantenuto il sangue freddo è la Gip di Milano, Angela Minerva, che ha escluso l’aggravante della premeditazione. Piccola cosa, certamente, di fronte all’agghiacciante omicidio, ma che ci porta al punto principale: il riconoscimento dei diritti di Impagnatiello. Perché il nostro ordinamento, la nostra Costituzione, il nostro Stato di diritto, non ci consente il “gettiamo la chiave” o il linciaggio.

Perfino in un caso come questo in esame, l’imputato (perché anche se reo confesso, è solamente tale; non dobbiamo e non possiamo dirlo colpevole, fino a sentenza passata in giudicato) ha una serie di diritti irrinunciabili: che lo Stato deve garantire, addirittura a spese proprie (ad esempio se l’imputato non può pagarsi un avvocato).

In primo luogo ha diritto ad un processo, ad un giusto processo.

Quindi ad un avvocato difensore. Ad un avvocato vero, che evidenzi nel processo tutte le possibili contraddizioni, che eccepisca eventuali vizi procedurali o abusi nei confronti dell’imputato; che richieda le verifiche sulla sanità mentale dello stesso; che si assicuri che giudici e giurati si basino sugli atti processuali e non siano influenzati dall’opinione pubblica.

Ad un avvocato che non venga scambiato con l’imputato e che, anzi, venga maggiormente rispettato quanto più fortemente ed efficacemente svolga il suo ufficio di difensore.

Tutti diritti, si dirà, che lo stesso Impagnatiello ha negato alla vittima.

Il punto è che una persona – per quelle incredibili articolazioni dell’animo umano che dai più antichi libri del Vecchio Testamento e dalla tragedia greca in poi vengono descritte, ma che non hanno una razionale spiegazione – può essere un carnefice, può essere spietato è inumano; lo Stato giammai.

Lo Stato deve essere sempre garante dei diritti, anche verso l’ultimo ed il più abietto dei suoi cittadini.

Così anche una volta che Impagnatiello fosse condannato, avrà diritto ad un trattamento umano in carcere. Anche lui – per quanto molti lo negano in generale – avrà diritto all’applicazione dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Due righe chiare, inequivocabili: come la grande civiltà dei nostri Padri Costituenti insegnava, il fine ultimo della punizione deve essere quello di recuperare alla società chi ha sbagliato (non parlo di deviato, perché qui entrerebbe in gioco la sanità mentale, le conseguenze connesse alla punibilità del soggetto che ne è afflitto, il diritto alla salute, garantito anche ai colpevoli).

Parlando di carcere il discorso, oggettivamente si complica.

Perché qui lo Stato – e questa rubrica l’ha annotato più volte – non riesce a garantire quel trattamento umanitario voluto dalla Costituzione e la detenzione diventa un inferno che porta al numero spropositato di suicidi che si registrano tra i carcerati. Una situazione che lo Stato ben conosce e che tace. Più volte denunciata, in relazione al carcere preventivo, indicato come forma mascherata di tortura per indurre il presunto innocente a confessioni.

È di questi giorni la pubblicazione del XIX rapporto sul sistema carcerario italiano dell’Associazione Antigone, “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, che ha tra i suoi fini la critica alla cultura dell’emergenza come forma di governo, anche in ambito penale, ed il contrasto al così detto populismo penale.

Il quadro che si trae da tale rapporto (è on line, leggetelo) è angosciante e pone l’Italia agli ultimi posti della classifica della vergogna.

Il sovraffollamento è di 5425 detenuti oltre la capienza: con l’avvertenza che quella risultante sulla carta va ridotta di 3646 posti non disponibili: quindi oltre novemila carcerati in più del massimo sopportabile. Rispetto al resto d’Europa, solo Cipro e Romania fanno peggio.

Negli istituti penitenziari i suicidi sono un problema a testimonianza di condizioni inumane. Nel 2022 sono stati 23 volte superiori rispetto ai suicidi in libertà e, nota il rapporto «delle 85 persone suicidatesi, 5 erano donne».

A parte il noto fenomeno delle condanne dell’Italia per “ingiusta detenzione” (nel 2022 lo Stato ha pagato, 27.378.085 euro a tale titolo) il Rapporto Antigone registra la presentazione, sempre nel 2022, di ben 7.643 richieste di risarcimento per trattamento inumano o degradante durante la detenzione.

Un quadro, insomma, più vergognoso che desolante.

Una situazione che deve cambiare perfino per Impagnatiello “il lurido” (definizione che leggo nelle cronache di sabato): perché se non cambia e se non riconosciamo persino Impagnatiello come soggetto di diritti, non potremo mai rivendicare a testa alta di essere parte di un Paese civile.

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un commento

Gianpietro Doni domenica, 4 Giugno 2023 at 14:53

Molto incisivo in mezzo al buio della menti.

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