giovedì, 28 Marzo, 2024
Il Cittadino

Il reato di parentela

“Il Dubbio” di mercoledì 3 maggio scorso, con un documentato articolo di Enrico Novi, dà notizia di una sentenza della Cassazione penale, 11 aprile 2023, n. 15156, con cui veniva sconfessata «l’equazione tra rapporto familiare e comunanza degli interessi economici, in assenza di indicatori di conferma»: un teorema, insomma, «meramente congetturale» che necessita, invece, di una concreta verifica e della prova inoppugnabile della diretta influenza del soggetto pericoloso sulla attività economica.

Veniva così accolto il ricorso di una donna, una giovane battagliera imprenditrice calabrese, titolare di un’impresa destinataria di interdittiva antimafia, con la deduzione di meri rapporti di parentela. E che reclamava – pensate un po’! – non la libertà di impresa che è garantita dalla Costituzione, ma, consapevole della situazione di inferiorità e di sospetto derivante da parentele della sua famiglia, chiedeva di essere ammessa con la sua impresa alla cosiddetta “messa alla prova aziendale”: cioè di lavorare sotto controllo giudiziario, come previsto dall’articolo 34-bis del decreto legislativo n.152 del 2011 (codice antimafia; la norma è stata introdotta nel 2017).

Si tratta esattamente della condizione di inferiorità denunciata in una bella mostra fotografica dell’agosto 2021, “Occhi di donna”, dalle ragazze della scuola media di San Luca.

Domenica 15 agosto 2021 è una data che non dimenticherò.

Quel giorno, con due grandi scrittori, Gioacchino Criaco e Domenico (Mimmo) Gangemi, con gli amici giornalisti Ilario Piscioneri e Rosario Vladimir Condarcuri, fummo accompagnati dal Presidente del Parco dell’Aspromonte, Leo Autelitano, in un giro per vedere i danni del disastroso incendio che aveva devastato migliaia di ettari di boschi secolari.

Quella stessa mattina, in questa rubrica, veniva pubblicato forse il mio pezzo più sentito, “Fuoco negli occhi di donna”, la cronaca della mia visita, alcuni giorni prima del Ferragosto, a quella mostra fotografica sulle donne di San Luca: proprio mentre l’incendio nei boschi circostanti montava, con grande preoccupazione di Bruno Bartolo, l’onesto e bravo sindaco di San Luca.

A proposito di quella mostra scrivevo:

«Nonostante le preoccupazioni del Sindaco rimanevo lì incantato a sentire le storie delle ragazzine di San Luca. Scoprire una poco più che bambina, Miriam Giorgi, autrice di una trilogia di romanzi, nominata Alfiere della Repubblica. Ascoltare le aspirazioni, i sogni di queste giovani donne. Ma anche le loro paure, che non hanno nulla in comune con i problemi delle loro coetanee di altri posti.

Il loro chiedersi su dove potranno andare, su come potranno proporsi nel mondo, con quella loro origine di un paese meraviglioso come San Luca, che si è voluto fosse più conosciuto come capitale della ‘ndrangheta che come paese natale di Corrado Alvaro, gigante della letteratura del Novecento. Magari con un cognome di una delle famiglie più tristemente famose. O addirittura di queste parente, con la consapevolezza – esplicitamente espressa – che non potranno avere accesso a tante opportunità; che, ad esempio, non potranno mai pensare, con quel cognome e con quelle parentele, a costituire una impresa, stante la certezza della interdittiva antimafia, uno dei più discussi istituti giuridici della nostra epoca, soprattutto per come viene spesso abusato. “Ma io”, si chiedeva una di loro “che colpa ne ho se mio padre ha un parente mafioso; quale reato ho compiuto?”».

Quindi sentenza – quella da cui abbiamo preso le mosse – su un fatto minore; ma rivoluzionaria perché afferma la necessità della prova: laddove fino a ieri si erano chiuse con le interdittive antimafia iniziative imprenditoriali e si erano sciolte amministrazioni comunali (atto che nega non ai mafiosi, ma ai cittadini, l’esercizio dei diritti democratici e costituzionali), unicamente sulla base di rapporti di parentela: senza neppure dedurre alcun fatto comprovante la soggezione dell’amministrazione all’organizzazione criminale.

Insomma, come giustamente notava Novi nel suo citato articolo, «è un piccolo spiraglio. Ma può essere l’inizio di un capovolgimento radicale degli stereotipi antimafia… Dare per scontato che un imprenditore con familiari “scomodi” sia invariabilmente un prestanome di questi ultimi è dunque arbitrario, anzi illegittimo».

Una piccola speranza, insomma, di normalizzazione dell’economia delle regioni più pervase dal fenomeno mafioso: ma dove proprio di più è necessario agire col bisturi, togliendo con precisione chirurgica solamente la parte malata.

Fare impresa al Sud è complicatissimo di per sé. Per le infrastrutture deficitarie e in tanta parte del territorio inesistenti. Per le difficoltà di collegamento. Ma soprattutto per l’esistenza della mafia: che si è voluto combattere solo con le armi della repressione penale, punitive di un reato già compiuto, ma inutilizzabili per prevenire e sconfiggere il fenomeno in sé.

Il Sud vive un fenomeno sconosciuto altrove. Imprese sane, guidate da imprenditori con figli che studiano management ai massimi livelli e che si preparano a chiudere: perché quei ragazzi, volti, certamente estranei alle logiche mafiose, non torneranno al Sud dove le difficoltà di fare imprenditoria sono tante di più; perché lo Stato pretende le stesse cose richieste ad una impresa in Lombardia o in Veneto, senza però offrire pari possibilità.

Ecco, se lo Stato vuole dare sostegno all’imprenditoria del Sud deve dimostrare di saper dominare la mafia: laddove, consentitemi, ogni qual volta di consente e si giustifica la fine di un’impresa sana (sia pure di un imprenditore con parentele scomode) si riconosce proprio il potere mafioso.

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