giovedì, 25 Aprile, 2024
Il Cittadino

La pizza di Damiano

Un complesso e strano intrecciarsi di idee, di ricordi e di sensazioni mi portano ad affrontare questa settimana un tema apparentemente disancorato dall’attualità.

Non che non avrei da dire sugli eventi della settimana.

La tragedia di Cutro, col dolore della morte in mare di quasi un centinaio di persone che erano lì solo per la speranza di vedersi riconosciuto il diritto di vivere e con la vergogna delle diatribe e speculazioni politiche che ne sono seguite, mi ha molto colpito. L’unico conforto l’accoglienza generosa della gente di Cutro, fratellanza che avevo già vissuto un centinaio di chilometri più a Sud, sullo stesso Jonio, nella Locride, dove pure si arenano di continuo barconi di disperati. E orgoglio per l’omaggio sincero che il Presidente Mattarella ha voluto tributare alle vittime del naufragio.

L’imputazione di Conte, Speranza e Fontana – altro argomento di rilievo dei giorni scorsi – per quanto politicamente, per opposte ragioni, non apprezzo nessuno dei tre, mi lascia molto perplesso. Specie alla luce delle dichiarazioni del Pm di Bergamo: «la gente deve sapere ciò che è successo», dichiarazione che, con riguardo al Covid, mi sembra un revival della colonna infame di manzoniana memoria e che la dice lunga su una cultura che ancora non digerisce l’idea della presunzione di innocenza, avendo additato gli indagati come colpevoli, dati in pasto come tali alla pubblica opinione.

Un p.m. che parli alla stampa (e non ne vedo francamente il motivo) potrà solo enunciare una tesi accusatoria da provare e dimostrare in un Tribunale, giammai comunicare alla “gente” una verità.

Ne riparleremo; di entrambi gli argomenti.

Ma in settimana ha prevalso in me un coacervo di emozioni che mi hanno riportato agli anni della mia adolescenza, al nettissimo ricordo dei bellissimi anni tra la terza media e il quinto ginnasio, vissuti praticamente nelle strade di Locri. Si andava a casa soltanto per necessità (mangiare, dormire, andare in bagno). Ma ancora masticavo l’ultimo boccone che già ero per le scale; poi in giro sempre, ovunque, fino al buio e fino a quando c’era qualcuno: si doveva chiudere la piazzetta, dicevamo.

Un gruppo di ragazzi mica banali, dai quali nacque – a Locri, nell’estate 1969 – il Circolo “Martin Luther King”, che rivendico sempre con orgoglio.

Tra i luoghi frequentati la pizzeria “La grotta azzurra” di Damiano Aglirà (una pizza piccola, pomodoro, provola, olive, origano; unica variante con o senza acciughe; pizza e gassosa 125 lire).

Damiano ci conosceva tutti, uno per uno e conosceva le nostre famiglie. Una specie di mentore che ci sorvegliava e che, senza pretese, cercava di trasmetterci qualche valore.

Damiano era comunista autentico, come si era comunisti nel 1968, senza se e senza ma e con un forte disprezzo per quelli che chiamava “comunisti da salotto”. Giudizio che mi ha molto condizionato, convincendomi ingenuamente allora, che provenendo da una famiglia benestante non sarei mai potuto essere comunista. In realtà credo che non sarei mai potuto esserlo, perché il liberalismo  era congenito in me. Ma come dice il proverbio, se a sedici anni non sei di sinistra non hai cuore… (in effetti altri amici coetanei e della medesima provenienza sociale lo sono diventati; e non credo fossero da salotto, anche perché dopo il PCI-PDS non hanno aderito all’ibrido PD: mi perdoneranno se per amore della battuta, completo il proverbio: se a quaranta lo sei ancora…).

Mi è tornata in mente questa frase “comunisti da salotto”, discutendo di rifiuti, con alcuni raffinati e colti interlocutori. Il mio concetto – l’ho sviluppato anche giuridicamente in un capitolo di un libro di diritto sul tema – è che i rifiuti sono il frutto di una società ricca. Rifiuto è un bene che ha cessato la sua funzione e viene, quindi, gettato, abbandonato.

È chiaro che più si è ricchi più rifiuti si generano: per un ricco un vecchio maglione diventa rifiuto molto prima che per un povero. Si gettano oggi nella spazzatura moltissimi oggetti che potrebbero ancora essere utili e che all’epoca della pizza di Damiano non sarebbero mai stati trattati come rifiuti.

La riprova è sotto gli occhi di tutti: gli zingari (si può dire ancora questa parola, che uso comunque senza intenti razzisti?) frugano con metodo nei cassonetti ogni mattina. A Roma, più puntuali dell’Ama, li vedo arrivare col loro carrello e con in mano una sorta di lungo uncino di ferro, con il quale frugare nei cassonetti. Poi con gli oggetti recuperati fanno (o facevano? non sono aggiornatissimo) un non banale mercatino dell’usato a Via Ardeatina.

Per tacere degli animali selvatici che nei cassonetti trovano cibo comodo, ricco di proteine.

L’economia circolare, teoricamente di una certa efficacia, ad ogni regolamento che viene approvato, rischia di accartocciarsi su sé stessa, conseguenza di una burocratizzazione sempre più invadente.

La raccolta differenziata, come fatta a Roma, non serve quasi a nulla: i rifiuti si contaminano tra loro, costa troppo separarli. Poi alcuni di loro (plastica pulita, vetro, metalli) hanno un valore intrinseco. Oggi vengono trattati come “recupero di materia”, ma potrebbero benissimo divenire direttamente “materia prima secondaria” (sono due diverse terminologie giuridiche che testimoniano la burocratizzazione del sistema) per il quale – ho sostenuto – dovrebbe essere pagato chi li cede: come avviene in qualche luogo più virtuoso. Conseguentemente, ho ipotizzato, la tassa sulla spazzatura è un furto al cittadino, perché i rifiuti hanno un valore commerciale. Magari anche soltanto come combustibile in un impianto adeguato.

A questo punto, appena ho parlato male delle tasse ed evocato il tabù termovalirazzatore, sono stato zittito. I miei raffinati interlocutori, ho sentito, si sono organizzati per andare a pranzo in un ristorante vegano (consentitemi: altra roba da ricchi).

Io ho subito avuto voglia della pizza di Damiano…

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