martedì, 16 Aprile, 2024
Attualità

Cultura del rischio o dell’emergenza?

L’Italia vive in perenne emergenza e pare contenta di prenderla così la vita.

Mai che un problema venga affrontato in anticipo, mai che un disastro venga arginato da politiche di prevenzione, mai che un minimo di programmazione razionale riesca a orientare le scelte in anticipo sul precipitare degli eventi, siano essi naturali, economici, sociali, internazionali, e via di questo passo.

Vivere in perenne emergenza è uno stressante “lusso”. È stressante perché quando esplode il problema si deve intervenire in condizioni non favorevoli: è come essere sempre al pronto soccorso o in chirurgia d’urgenza. È costoso, perché in emergenza si lavora male, non si ha il tempo di selezionare con cura cosa fare, chi deve fare che cosa e a quale prezzo: si agisce in fretta e furia su situazioni gravemente compromesse.

La cultura dell’emergenza si è diffusa in Italia per mancanza di una vera cultura del rischio.

Si tratta di due atteggiamenti profondamente diversi.

La cultura del rischio si basa non certo sulla previsione di fenomeni ostili ma sul calcolo della probabilità che essi avvengano e sulla necessità di fare di tutto per poterli prevenire o per contenere i danni quando tali fenomeni accadono senza la possibilità di impedirli.

In Italia domina, invece, la cultura dell’emergenza per giunta in una modalità particolare, quella dell’emergenza infinita.

Un esempio. L’Italia, si sa, ha gran parte del suo territorio ad elevato rischio sismico. Terremoti sono sempre molto probabili in vaste zone del Paese. I terremoti non si possono-ancora- prevedere con certezza. Esistono “sintomi premonitori”, ma quando, dove e con quale magnitudo ed estensione si possa verificare un terremoto oggi ancora nessuno lo può sapere di preciso.

La cultura dell’emergenza predispone le azioni che si devono realizzare a caldo in caso di terremoti: intervento rapido della protezione civile, allestimento di tendopoli e prefabbricati per ospitare gli sfollati, ospedali da campo per i soccorsi più urgenti in caso di blocco della viabilità e dei trasporti etc.. Poi però la variante italica della cultura dell’emergenza allunga i tempi oltre ogni ragionevole durata. L’ emergenza si cronicizza e va avanti per decenni: le ricostruzioni non finiscono mai, le ferite alle città e alle popolazioni rimangono aperte e dolorose, cumuli di macerie stazionano per anni senza essere rimosse e c’è ancora gente che vive in baracche a distanza di vari lustri.  Il costo complessivo delle distruzioni, degli interventi di emergenza e delle infinite ricostruzioni -e non calcoliamo i danni alle persone e i costi sociali e morali- lievita a dismisura.

La cultura del rischio orienterebbe in modo radicalmente diverso le politiche di intervento. Si avvierebbe subito in maniera coordinata e non occasionale il consolidamento in senso antisismico degli edifici pubblici e privati collocati nelle zone a più elevato rischio, si metterebbero in sicurezza scuole, ospedali, uffici pubblici, strade, ferrovie, gallerie, viadotti e centri nevralgici di produzione e distribuzione di energia e di comunicazioni.

Tutto questo avrebbe un costo sicuramente inferiore a quello delle distruzioni e delle ricostruzioni perenni e porterebbe due conseguenze: un aumento degli investimenti pubblici e privati- con benefici per il PIL e l’occupazione- e una maggiore responsabilizzazione nei comportamenti dei singoli e delle collettività.

Da anni esistono mappe sismiche ma ad esse non segue una politica coerente e tanta gente vive con la spada di Damocle sulla testa del possibile evento sismico. E che Dio ce la mandi buona.

Senza cultura del rischio, la cultura dell’emergenza sfocia in un assurdo fatalismo come quello che vede 800 mila persone abitare sulle pendici di un vulcano terribile come il Vesuvio che cova nella sua pancia una rabbia che prima o poi esploderà con effetti catastrofici. Ma, nel frattempo, nessuno fa nulla per predisporre almeno un piano di evacuazione, ammesso che sia possibile evacuare in pochissime ore 800 mila persone…

L’assenza della cultura del rischio si estende anche ai temi economici. Ad esempio, il problema del debito pubblico. Sappiamo tutti che questo debito va ridotto prima che divenga una incontrollabile valanga che tutto travolge. Nel frattempo, però, ci limitiamo a mettere delle toppe con manovre di bilancio che ogni anno esorcizzano le clausole di salvaguardia, evitando gli aumenti dell’IVA, ma ben sapendo che in assenza di politiche strutturali di riduzione del debito e di aumento del PIL, nell’anno successivo e in quelli a seguire bisognerà fare la stessa cosa.

Sicché non si calcola il rischio che il debito pubblico divenga incontrollabile o troppo pesante e si naviga a vista predisponendo interventi di emergenza anno per anno e senza una visione strategica di medio/lungo periodo.

Gli esempi sono infiniti, la conclusione è una sola: un Paese moderno, di fronte alla complessità generale dei problemi, non può considerarsi sempre in emergenza, deve usare la cultura del rischio e intervenire con saggezza per tempo. Confidare nello stellone italico è sbagliato, patetico e provoca danni gravi. Il fatalismo non si addice ad una politica degna di questo nome.

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