venerdì, 26 Aprile, 2024
Esteri

Afghanistan: “Non si lascia indietro nessuno”. Ma è davvero così?

Mentre l’amministrazione americana sta pianificando le prossime mosse verso una smobilitazione dall’Afghanistan, quello che alcuni considerano un disimpegno più che necessario da un conflitto durato 18 anni, altri lo vedono più come una resa totale, più simile al Vietnam, che cede tutto ciò è stato conquistato durante tutto il conflitto ai Talebani non certo pentiti. Senza parlare di quello che significa in termini di costi per i nostri partners afgani indigeni impegnati durante tutti questi anni al fianco degli Stati Uniti.

Durante il mio servizio in Afghanistan, dice Marc Polymeropoulos a The Cypher Brief, ex senior intelligence service per 26 anni alla Central Intelligence Agency (CIA),  abbiamo vissuto, mangiato e combattuto con alcuni incredibili patrioti afgani che hanno visto gli Stati Uniti come l’alleato indispensabile nella loro lotta per la sopravvivenza. Oltre pollo, capra e riso, innumerevoli tazze di tè, troppi funerali di compagni persi, inverni polari ed estati brutalmente calde, insieme, impegnati in una sanguinosa lotta per liberare l’Afghanistan dai Talebani.

La buca per il fuoco era la nostra arena sociale, la chiamavamo “Cave Man TV”, poiché non avevamo altro da fare nel nostro tempo libero se non diventare con i nostri alleati afghani come fratelli. Alla base di questa sinergia, le nostre capacità messe a dura prova dalla convinzione che i nostri fratelli afghani erano con noi e che non li avremmo più abbandonati (come avevamo precedentemente fatto dopo la prima guerra afghana contro i russi). Questo ci dava la forza di andare avanti.

Ricordo, dopo uno scontro a fuoco feroce, in cui le nostre unità indigene fecero riportare ai Talebani ingenti perdite, un ufficiale dell’Esercito degli Stati Uniti mi chiese riguardo alla capacità di combattere dei nostri alleati. La mia risposta fu semplice e molto chiara, affermai che i nostri partners costituivano “la migliore forza di combattimento dell’Afghanistan orientale, di cui ci fidavamo così tanto da affidargli ogni giorno le nostre vite”. Quindi, penso ai nostri partners indigeni oggi, che in passato credevano alle mie promesse e che oggi vedono un’America stanca, afflitta da 18 anni di guerra e un Presidente che ha fatto del ritiro dall’Afghanistan, uno dei suoi punti fondamentali della sua campagna e che ora negozia con i Talebani da una posizione di straordinaria debolezza, questo è ciò che vedono e, soprattutto, temono. Questi sono i pensieri che tormentano le mie notti insonni. Cosa faranno e penseranno oggi i nostri alleati afghani indigeni?

Peshmerga Curdi

Ho avuto esperienze simili servendo nel nord dell’Iraq circa due decenni fa, vivendo a fianco dei nostri partners curdi – su cui abbiamo fatto affidamento per la nostra sicurezza – mentre ci preparavamo per l’invasione degli Stati Uniti in Iraq. Ricordo un vivace e talvolta acceso dibattito con un funzionario curdo, che mise in dubbio l’impegno generale degli Stati Uniti a rovesciare il regime di Saddam e sollevò un sopracciglio alle mie promesse per il sostegno degli Stati Uniti alla fine di istituire un Iraq più giusto e democratico. Dopo l’ennesimo dei miei soliti discorsi in attesa di una solida azione, il funzionario curdo sorrise e dichiarò: “Noi curdi, siamo sempre stati abbandonati da Israele, Stati Uniti, Iran e persino Saddam – nessuno ha mai mantenuto la parola. Ciò che facciamo in futuro, lo faremo per noi, non per chiunque altro … non per te”.

 

Sono stato colto di sorpresa, poiché questo non faceva parte del playbook di addestramento all’intelligence. Allontanandomi dalla mia solita sceneggiatura, l’ho ringraziato per la sua onestà e gli ho detto “OK, lo farai per te, per i curdi, non per noi, non per qualsiasi ideale americano, puramente per l’interesse personale del popolo curdo, e questo è tutto , non parleremo più degli alti ideali degli Stati Uniti in futuro. “Ha quindi accettato che le sue forze ci avrebbero aiutato, e noi eravamo fratelli d’armi dopo quello scambio sincero e molto onesto.

Simile ai nostri partners afgani in Asia meridionale, ho pensato ancora una volta ai Curdi l’anno scorso, quando l’amministrazione americana – contro il consiglio, quasi unanime della comunità di sicurezza nazionale americana – ha annunciato pubblicamente un ritiro militare dalla Siria, il che includeva una significativa riduzione dell’assistenza militare degli Stati Uniti ai nostri partners curdi che spargevano il loro sangue a frotte nella lotta contro l’ISIL. Mai avrei pensato, quando ero ancora in quei territori che gli Stati Uniti, un giorno, avrebbero abbandonato coloro che avevano combattuto al nostro fianco. Oggi mi chiedo spesso cosa penserebbe di me il mio amico curdo dall’alto della sua profonda conoscenza della realpolitik che mi aveva chiaramente espresso 16 anni prima.

Anche in Siria, paese che ho imparato ad amare dopo averci vissuto circa dieci anni, è accaduta una situazione simile. Il precedente governo degli Stati Uniti aveva deciso di fornire il proprio sostegno all’opposizione siriana con un unico obiettivo, spesso sbandierato pubblicamente, rimuovere il Presidente siriano Bashar al Assad e il suo regime corrotto. Purtroppo, obiettivo non scolpito nella pietra. Ricordo a tal proposito i commenti di più di un alto funzionario dell’amministrazione Obama, mentre il conflitto perdurava sempre più sanguinoso: affermavano che i nostri partners dell’opposizione siriana non avrebbero dovuto vincere del tutto, avrebbero dovuto combattere solo per raggiungere un accordo in grado di soddisfare i nostri partners regionali che temevano il caos se l’opposizione avesse ottenuto la vittoria totale.

Un discorso che, senza dubbio avrebbe avuto senso nei salotti più accreditati di Riyad, Doha o Abu Dhabi, ma diciamolo al semplice insegnante di Idlib o al negoziante di Aleppo, che, coraggiosamente, aveva preso le armi e si era unito all’opposizione sotto la nostra guida – continua Polymeropoulos – con il nobile obiettivo di una Siria libera da Assad.

Riflettendo sulla Siria oggi, la mia mente torna indietro a un coraggioso giovane siriano che credeva così fortemente nell’ideale americano che voleva che i suoi figli nascessero negli Stati Uniti, visto che vedeva l’America come una terra di democrazia e libertà politica e religiosa, e credeva che fossimo seriamente intenzionati a rimuovere il presidente Assad. Proprio come i miei vecchi amici afghani e curdi, immagino  quel giovane siriano non troppo felice al pensiero di me oggi.

Ripensando ai 26 anni passati in mezzo a una serie di numerose medaglie ricevute per il lavoro che Washington ha ritenuto dei significativi “successi” sul campo, in alcune delle aree più pericolose del mondo, ho un fastidioso e talvolta profondo senso di colpa. In realtà, mi disturba ammetterlo, ma abbiamo forti difficoltà a mantenere la parola con i nostri alleati indigeni. Dentro di me, le nostre ragioni erano giuste, e sono profondamente orgoglioso del mio ruolo in ogni arena di conflitto in cui abbiamo sostenuto i partner locali che, nel mio profondo ho sentito come fratelli.

Gli attuali colloqui di pace afghani hanno sicuramente alimentato questa mia sensazione di inquietudine  per le promesse non mantenute e gli alleati lasciati alle spalle.  Forse i nostri pionieri dell’OSS avrebbero qualcosa da dire in merito a situazioni simili, mi riferisco alla  Grecia dopo la seconda guerra mondiale, quando i nostri alleati di sinistra nella resistenza greca contribuirono a sconfiggere i nazisti  diventarono i nostri più accesi nemici in “una notte” durante la guerra fredda.

Ad un certo punto, dobbiamo chiederci, in particolare per le future generazioni di americani coraggiosi che vivono e combattono a fianco delle forze indigene, qualcuno crederà alle nostre promesse durante il prossimo conflitto, dato il nostro passato piuttosto imprevedibile? I nostri politici dovrebbero tenere a mente questa domanda prima di decidere di ritirarsi da conflitti difficili, disordinati e “incompiuti” che, peraltro sono costati la vita sia ad americani che ai nostri partner indigeni.

La morale che ci viene spontanea dopo questa profonda e toccante testimonianza è che la politica molto spesso travalica i confini dei “buoni sentimenti”, ma non per questo ci deve rendere insensibili.

Ringraziamo Marc Polymeropoulos per l’eccezionale contributo rilasciato a The Cypher Brief che abbiamo ritenuto riportare ai nostri lettori per la sua unicità.

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