lunedì, 12 Maggio, 2025
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L’Italia spaccata sul lavoro: 27 giorni in più al Nord, ma non è colpa del Sud

In Italia esistono due mondi paralleli quando si tratta di lavoro. Da una parte, il Nord, dove si lavora in media 255 giorni l’anno. Dall’altra, il Sud, dove la media si ferma a 228. Una differenza di 27 giornate lavorative che non può (e non deve) essere letta con le lenti deformanti dei pregiudizi o dei luoghi comuni. Gli italiani del Mezzogiorno non lavorano meno perché siano meno volenterosi o meno produttivi, ma perché inseriti in un contesto economico e lavorativo segnato da profonde distorsioni e fragilità strutturali. A ribadirlo con chiarezza è l’Ufficio studi della CGIA, che ha analizzato i dati del 2023 relativi alle giornate lavorate dai dipendenti del settore privato su base provinciale. Nella provincia di Lecco si è lavorato più che altrove: quasi 265 giorni in un anno. Seguono Biella, Vicenza, Lodi e Padova, tutte con oltre 263 giornate di lavoro. Sul fondo della classifica, invece, troviamo province del Sud come Foggia (213,5), Trapani (213,3), Nuoro (205,2) e Vibo Valentia, dove i dipendenti risultano attivi appena 193,3 giorni: ben 70 in meno rispetto ai colleghi lecchesi.
La media nazionale si attesta a 246,1 giorni lavorativi, ma le disparità territoriali evidenziate sono tali da rendere quasi irrilevante il dato complessivo. Ciò che conta davvero è comprendere perché si lavora così tanto meno al Sud.

Economia sommersa e precarietà

La risposta va cercata lontano dai cliché. Al Sud non si lavora meno perché manchino la voglia o il senso del dovere, ma perché il contesto economico impone limiti oggettivi alla continuità e alla regolarità dell’occupazione. Le due cause principali? Una forte incidenza dell’economia sommersa e una diffusa precarietà del mercato del lavoro. Nel Mezzogiorno l’attività lavorativa ‘in nero’ è molto più presente che nel resto del Paese, e ovviamente non viene rilevata dalle statistiche ufficiali. Ciò significa che buona parte delle ore effettivamente lavorate da milioni di persone non appare nei dati, generando un’illusione ottica di ‘inattività. La seconda causa è la prevalenza di rapporti di lavoro temporanei, part-time involontari, contratti stagionali (in particolare nei settori turistico e agricolo) che abbassano drasticamente la media delle giornate lavorate.
C’è un’altra verità che emerge dai dati Cgia: a un numero maggiore di giornate lavorate corrispondono, quasi sempre, stipendi più alti. Non è solo una questione di ore, ma anche di produttività. Nel 2023, la retribuzione media giornaliera al Nord è stata di 104 euro lordi, contro i 77 euro del Sud, pari a un differenziale del 35%. La produttività stessa è risultata più alta al Nord del 34%.

Stipendi pesanti al Nord, buste paga leggere al Sud

Il gap salariale tra le due Italie è antico, ma si è aggravato con la concentrazione al Nord di grandi aziende, multinazionali, utility, istituti bancari e assicurativi, che offrono stipendi sopra la media. A ciò si aggiunge la maggiore incidenza di figure apicali (manager, quadri, tecnici) che contribuiscono ad alzare il livello medio delle retribuzioni. Milano guida la classifica delle retribuzioni annue con 34.343 euro lordi, seguita da Monza-Brianza, Parma, Modena e Bologna: province dove il tessuto produttivo è dominato da settori ad alta specializzazione come l’automotive, la meccatronica, il biomedicale e l’agroalimentare. A Vibo Valentia, fanalino di coda, la retribuzione media lorda annua si ferma a 13.388 euro. Un lavoratore calabrese, in pratica, guadagna in un anno meno di quanto un milanese percepisce in cinque mesi. La media italiana è di 23.662 euro lordi.
La questione salariale non può essere affrontata solo invocando l’introduzione di un salario minimo per legge. Come evidenzia anche il Cnel, il vero nodo è che molte persone non lavorano abbastanza durante l’anno. I minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi nazionali, spesso, non sono il problema principale.

La proposta

La Cgia propone invece di rafforzare la contrattazione decentrata (cioè aziendale o territoriale) legandola a obiettivi di produttività e incentivando fiscalmente i premi di risultato. In questo modo si potrebbero aumentare le retribuzioni, soprattutto per i lavoratori con qualifiche più basse, riducendo al contempo la pressione fiscale grazie al taglio dell’Irpef. Attualmente solo il 23,1% delle imprese italiane con almeno 10 dipendenti applica un contratto decentrato. I lavoratori coinvolti sono stimati in circa 5,5 milioni, pari al 55% del totale. Ma l’Istat precisa che non tutti gli addetti sono effettivamente interessati da questi contratti. È quindi evidente quanto ci sia ancora da fare per rendere questa forma di negoziazione uno strumento diffuso e strutturale.

 

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