Forse si è concluso per davvero il “Secolo breve”, reso ormai celebre nel nostro immaginario collettivo grazie all’espressione coniata dallo storico E. Hobsbawm. In realtà, la nostra attenzione non dovrebbe tanto focalizzarsi sulla fine del mondo nato sulle macerie della Guerra fredda, ma sulla genesi dell’ordine globale scaturito al termine del primo conflitto mondiale. Come cento anni fa i fantasmi di Sarajevo tornano a riaffacciarsi sul destino dell’Europa, perché la reazione a catena, provocata dall’omicidio dell’Arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, provocò non soltanto lo scoppio della Grande Guerra, ma di fatto minò le basi di quello che è stato finora l’unico processo compiuto di globalizzazione economica su scala planetaria.
Ciò fu possibile grazie alla solidità e alla pervasività dei grandi imperi commerciali occidentali, a cui si aggiunse sul finire del secolo XIX anche quello nascente americano. Ma l’incantesimo si ruppe proprio con la prima guerra totale della storia, a seguito dell’indebolimento delle potenze europee e della nascita di nuove fratture in seno agli Stati nazionali del “vecchio Continente”.
Un secolo più tardi quelle antiche rivalità riesplodono in tutta la loro virulenza, perché messi a nudo dall’attuale pandemia, ovvero il “cigno nero” del 2020. Lo scenario internazionale apparentemente unificato e globalizzato resta ancora, infatti, una macchina di conflitti politici e strategici. Il motivo? Come lucidamente descritto da G. Sapelli nel suo ultimo libro, “Pandemia e resurrezione” (Guerini e associati, 2020), il mondo attuale vive, da un lato, in una innegabile asimmetria con un ordine economico-produttivo riunito attorno a grandi aree protezionistiche, mentre dall’altro abbiamo assistito ad un inarrestabile processo di globalizzazione dei mercati finanziari. Questa profonda discrasia non può che colpire duramente un’area a vocazione industriale e manifatturiera come l’Europa. A tutto ciò si è aggiunta, nel corso dei decenni, l’incapacità europea di ripensarsi come unità politica e culturale, in grado, dunque, di competere su scala globale con le vecchie e le nuove superpotenze, giungendo infine – con un sostanziale nulla di fatto- alla svolta epocale di Maastricht nel 1992. Quel trattato segnò la definitiva prevalenza dei rapporti di forza tra gli Stati nazionali nell’ambito dell’Unione Europea, ponendo le basi all’insorgere di quel fenomeno, che noi oggi chiamiamo in maniera vaga ed indefinita come sovranismo.
Ad accusare maggiormente questa impasse politico-istituzionale è stata certamente l’Italia. Ed è proprio qui che emergono i limiti della teoria del cosiddetto vincolo esterno, ovvero utilizzare la cintura di sicurezza fornita dai parametri finanziari fissati dall’Unione Economica Monetaria, per cancellare l’annosa questione della responsabilizzazione della classe politica italiana in materia di equilibrio di bilancio e di lotta alla spesa pubblica improduttiva o parassitaria. Ad oltre venticinque anni di distanza dalla firma del Trattato di Maastricht, i problemi strutturali del nostro sistema nazionale non sono stati risolti dalla nostra appartenenza al consesso comunitario. Ma di certo non per colpa dell’Europa. Infatti, a partire dalla seconda metà degli anni’90, la linea politica del vincolo esterno avrebbe dovuto essere accompagnata da una rinnovata capacità e credibilità negoziale delle classi dirigenti italiane.
Si giunge così al nodo cruciale della nostra debolezza istituzionale. Lo Stato italiano non si è mai dotato, infatti, di una scuola di eccellenza per la selezione e la formazione dei vertici dell’amministrazione pubblica, sulla falsariga di quanto avveniva, invece, in Francia e Inghilterra con i modelli virtuosi dell’Ecole National d’Administration a Parigi o della Civil Service Commission delle nazioni anglo-sassoni. In Italia non si è riusciti a realizzare nulla di simile, neanche dopo la fallimentare istituzione della Scuola Nazionale d’Amministrazione, la “brutta copia” sbiadita dell’anarchia francese. Ogni pezzo dello Stato sembra seguire il proprio percorso autonomamente, con una mancanza evidente di coordinamento sia all’interno del settore pubblico che nel rapporto con il mondo finanziario ed industriale. Una dinamica dannosa che rende l’Italia molto più esposta ai vincoli esterni – da parte dell’Unione Europea, dei mercati finanziari e di attori stranieri forti – di quanto dovrebbe essere. In Italia il potere è disarticolato, privo dei centri decisionali indispensabili per orientare con efficacia l’azione dello Stato sia all’interno che all’esterno. Il nostro rimane un paese industriale e manifatturiero, ma senza più una qualche parvenza di struttura nazionale.
La crisi italiana, in definitiva, è stata analizzata da un punto di vista prettamente economico. In realtà, se si mettono in fila fatti ed eventi storici è evidente che i problemi più gravi per il paese siano l’incapacità di produrre un élite, in particolare modo nel settore pubblico, e di costruire un establishment coeso e ordinato, cioè capace di gestire con lungimiranza e saggezza i vincoli esterni. In tal senso, torna alla mente ciò che raccomandava il Cardinal Richelieu nel perseguimento dell’interesse prevalente dello Stato, ovvero ciò che si vuole ottenere e la forza con cui lo si otterrà dovranno trovarsi in proporzione geometrica. Ma per fare questo, occorre essere “liberi e forti”, a maggior ragione se sul destino d’Europa inizieranno a manifestarsi concretamente i fantasmi di Sarajevo.