lunedì, 16 Dicembre, 2024
Il Cittadino

Guardie, ladri e ipocrisie

Si è accesa sui mass media italiani una allarmistica campagna di stampa su un aspetto minore della riforma Cartabia: l’allargamento della perseguibilità di alcuni reati solo a querela di parte.

Si tratta di una riforma entrata in vigore dal primo gennaio e che esclude si possa procedere d’ufficio per punire alcuni reati quali il furto (ad eccezione di quello nelle abitazioni) l’appropriazione indebita, le frodi fiscali, la violazione di domicilio, le lesioni personali colpose stradali, il danneggiamento di beni e altri.

Reati tutti che per essere puniti necessitano ora della querela della persona offesa, da proporsi nel termine di novanta giorni, e rimettibile a discrezione del medesimo querelante.

La previsione della punibilità di alcuni reati a querela di parte non è una novità della riforma Cartabia. È sempre esistita, il giudice interviene solo a seguito di una specifica querela, ad esempio, nelle ipotesi di truffa, reato antico quanto il mondo; ma anche per reati di recente introduzione, quale lo stalking.

Prevedere la punibilità dell’autore di alcuni reati (minori) a querela di parte è una scelta legislativa: sostanzialmente si rimette al privato la valutazione della punizione del reo (che è presunto innocente fino alla condanna anche in questi casi): privato-parte lesa che può, legittimamente, arrivare anche ad una transazione con l’autore del reato.

Il migliore esempio di ciò è dato dal reato di diffamazione, punibile anch’esso soltanto a querela di parte: l’Autorità giudiziaria, anche se venuta a conoscenza della diffamazione (ad esempio perché pubblica, a mezzo stampa), non potrebbe procedere in assenza di una querela. Non solo; ma le parti, diffamatore e diffamato, potrebbero legittimamente accordarsi per un risarcimento e chiuderla lì, senza che il giudice penale possa opporsi o proseguire nell’azione giudiziaria (per inciso il risarcimento del danno conseguente alla diffamazione si può ottenere anche con un semplice giudizio civile, rinunciando a priori alla condanna penale).

Tutto questo protestare, quindi, per l’allargamento delle ipotesi di punibilità a querela di parte mi è parsa sospetta, così come ho giudicato una esagerazione l’urlo terrorizzato e generale che il furto così sarebbe stato sostanzialmente legalizzato: mi è parsa una ricostituzione del fronte forcaiolo, una prova generale di “resistenza” alle proposte garantiste e liberali del Ministro Nordio.

Eppure è ben più di una sensazione personale, che quel genere di reati, da perseguire necessariamente stante l’obbligatorietà dell’azione penale, restassero già prima della riforma Cartabia nella pratica giudiziaria un tantino trascurati.

Certamente per il dato oggettivo del gran numero di fascicoli giacenti nelle Procure, smisurate in relazione agli uomini a disposizione: ma con la conseguenza che l’obbligatorietà dell’azione penale diventa sostanzialmente discrezionale, potendo ogni ufficio stabilire i reati da perseguire con priorità, rispetto ad altri.

Significativa di tale discrezionalità è la circolare emanata nel 2014 dal Presidente Pignatone, all’epoca Capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma. Con essa venivano fissati in non più di dodicimila all’anno le richieste di fissazione di udienze da parte dei P.M. Conseguenza di tale limitazione – giustificata dalla carenza di organico “soprattutto di personale amministrativo” – è stata la determinazione dei reati cui attribuire una corsia preferenziale (c’è pure un decreto legislativo che prevede ciò: il n. 51 del 1998).

Sostanzialmente la circolare dava priorità ad alcuni reati, ritenuti più importanti, da far rientrare nelle dodicimila udienze annue sostenibili.

I fascicoli dei reati ritenuti minori, invece, dovevano essere annotati in un apposito registro, lo Sdas (sezione definizione affari seriali). E lì finivano, quindi, una serie di reati definiti trasgressioni minime quali (traggo i dati da una cronaca del tempo): la guida senza patente o in stato di ebbrezza, i mancati adempimenti degli obblighi derivanti da misure di prevenzione, furti sul banco del supermercato, contraffazione di prodotti venduti al dettaglio, le resistenze e gli oltraggi a pubblici ufficiali. Una sorta di “hospice” in attesa della morte per prescrizione: il cui maggior tempo non a caso si consuma proprio prima del processo, quindi, negli uffici delle Procure: laddove il “giusto processo” impone una definizione veloce e non dopo anni di pendenza, in un procedimento di cui non frega più niente a nessuno e che deve soltanto essere smaltito, vada come vada, e con buona pace e della Giustizia (che è un concetto filosofico, ribadisco sempre, non il rito che si officia nei Tribunali).

Polemiche sugli effetti della riforma Cartabia che si sono acuite allorché è stata data la – non dico falsa, ma artefatta certamente sì – notizia che a Palermo tre presunti boss (nobilitazione di cui vengono gratificati tutti i mafiosi arrestati, come se arrestare un semplice “picciotto” fosse sminuente) hanno rischiato la scarcerazione da un’accusa di lesioni per la mancata querela presentata dalle vittime.

Notizia montata perché i tre soggetti in questione erano già in carcere e non scarcerabili. Ipotesi, comunque risolvibile con un rimedio semplice, subito fatto proprio da molti politici: escludere la necessità della querela, quando si ipotizza l’aggravante mafiosa.

Rimedio che riferisco, ma non condivido: un po’ per il razzismo da cui mi sento qualche volta lambire in quanto “sudicio” (da “sudici” contrapposti a “nordici”, definizione creata da Pasquino Crupi e poi ripresa – per quanto a me noto – dallo scrittore Gioacchino Criaco nel bel settimanale “La Riviera” di Rosario Vladimir Condarcuri), un po’ perché se veramente c’è una finalità mafiosa il reato è ben più grave delle lesioni, anche se non fosse stato torto neppure un capello.

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