Oggi avrebbe aperto un canale you tube e probabilmente avrebbe divulgato la sua conoscenza in ambito di pastorizia e agricoltura con dei brevi video.
Lo slogan sarebbe stato: “seguimi per scoprire altri trucchi e segreti sulle scienze agronomiche”.
Ma era il 36 d.C. e l’unico canale di divulgazione era quello di scrivere un trattato sull’argomento. L’influencer in questione è Lucio Giunio Moderato Columella, il trattato di ben 12 volumi è il “De re rustica”.
Ma questo cosa centra con la nostra rubrica di cucine moderne?
In questa rubrica spesso ci troviamo a parlare di preparazioni, piatti e tecniche moderne legate all’ambito culinario che poi, andiamo a scoprire che tanto moderne non sono, di qui il legame con Columella di cui parliamo oggi.
Dal “De re rustica” infatti nasce un particolare prodotto caseario chiamato Caciofiore, formaggio a latte crudo ovino, che viene cagliato con fiori di cardo delle campagne laziali.
“Conviene coagulare il latte con caglio di agnello o di capretto, quantunque si possa anche rapprendere con il fiore di cardo silvestre o coi semi del cartamo o col latte di fico. In ogni modo il cacio migliore è quello che è stato fatto col minimo possibile di medicamento”. (Lucio Giunio Moderato Columella, “De re rustica”, 50 d.C.).
Il progetto finanziato dalla Camera di Commercio di Roma e dalla Azienda Romana Mercati, ha trovato alcuni produttori artigiani ovviamente del Lazio, che hanno portato avanti questa piccola sfida: fare il formaggio come lo facevano i romani, chiamandolo ovviamente Caciofiore di Columella.
Una storia particolarmente interessante è quella di Sergio Pitzalis. Per arrivare alla produzione del suo Caciofiore, parte dall’allevamento semibrado di pecore, che in inverno pascolano nella zona di Cerveteri mentre in estate arrivano sugli altopiani abruzzesi, facendo la transumanza, come una volta.
Il noto casaro, trasforma il latte, producendo vari tipi di pecorini; per il Caciofiore utilizza solo latte crudo (ovvero senza processo di pastorizzazione), senza aggiunta di fermenti, senza aggiunta di nulla se non i pistilli di cardo di cui la campagna romana una volta era piena.
Il cardo, della stessa famiglia del carciofo, definito anche carciofo selvatico infatti, è un ortaggio che cresce bene nel Lazio, basta pensare sulle tavole della regione quanto siano diffuse le preparazioni a base di queste asteracee e ben si capisce come un tempo potesse essere comune rifornirsi di cardi nella campagne locali.
La cagliata viene messa in fuscelle quadrate e subisce un processo di stagionatura che va da 30 a 90 giorni.
Il Caciofiore dal 2005 ha ottenuto poi il riconoscimento di presidio Slow food e da molti è stato definito l’antenato del pecorino romano.
All’assaggio il formaggio presenta odori lattici e burrosi, sentori di ovino e a seconda della stagionatura il sottocrosta più assumere una consistenza più cremosa.
Nelle versioni più stagionate che ho avuto modo di provare, si possono sentire anche piacevoli note di frutta secca.
La sua caratteristica, che non è da scambiare con un difetto, è il finale amarognolo, comune a tutte le tipologie di formaggio a caglio vegetale.
Il periodo migliore per degustarlo è quello primaverile, perché il Caciofiore di latte maggengo ha sicuramente complessità aromatica superiore a quello degli altri periodi dell’anno e porta con sé tutti i benefici del latte che gli animali producono con erbe di pascolo di inizio estate.
Suggerimenti per la degustazione? Da provare con un bicchiere di cesanese che non faccia passaggio in legno o anche di bellone spumantizzato, per accompagnarlo qualche nocciola romana della Tuscia, ovviamente.
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