giovedì, 2 Maggio, 2024
Attualità

Schedature, dossier, segnalazioni: quali limiti per lo Stato?

Ciò che più mi ha sorpreso nella cosiddetta vicenda “dossieraggio” è la constatazione che tutti trovino naturale che lo Stato abbia il potere di fare e conservare legittimamente dossier di informazioni riservate su suoi cittadini.

Le proteste – a volte addirittura urlate con sdegno – si sono limitate, infatti, alla doglianza che quei fascicoli, quella raccolta di dati sensibili (come si dice oggi) potesse cadere in mani sbagliate. Nessuno si è posto la domanda sul perché – ed in forza di quale diritto – lo Stato possa raccogliere e conservare per anni, per decenni, ad libitum insomma, informazioni confidenziali, pur se da queste non si delinei una ipotesi di reato, ma soltanto una raccolta di informazioni personali su preferenze politiche, inclinazioni, abitudini, rapporti, ideologie di una determinata persona: evidentemente onesta, se da quei dati non parte alcuna imputazione.

Ovviamente è chiaro a tutti che alcuni organi dello Stato – la Polizia, ordinaria e tributaria, in primo luogo – abbiano tra i loro compiti proprio quello di svolgere indagini. Con l’obbligo di informare il magistrato ogni qual volta da quelle indagini possa emergere un’ipotesi di reato. Da qui in poi la palla passa al potere giurisdizionale che dovrà stabilire se procedere con una richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione.

Sistema che ha avuto un fondamentale mutamento con l’introduzione nel 1988 del codice di procedura penale vigente (con varie modifiche particolari intervenute negli anni) dove l’azione penale è stata svincolata dalla “notizia di reato” ricevuta dal p.m. L’autorità inquirente, oggi (con semplificazione giornalistica), è libera di ricercarla in proprio: «Il pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate o trasmesse a norma degli articoli seguenti» (art. 330 c.p.p. – “Acquisizione delle notizie di reato”). Norma dalla quale trae origine ogni polemica sull’ufficio del pubblico ministero e che, secondo la mia opinabilissima opinione, l’ha privato della caratteristica propria del magistrato: di giudicare come infondata o fantasiosa la notizia di reato ricevuta. Perché mi pare ovvio che se si ipotizza e ricerca di propria iniziativa un reato, necessariamente si demanda in una fase successiva al giudicante il giudizio oggettivo: ma spesso dopo avere devastato la vita di un innocente, magari ricorrendo a quell’autentico strumento di tortura che è la carcerazione preventiva (il record italiano di condanne per ingiusta detenzione sta lì ad attestarlo). Ma anche di trasformare il p.m. in ciò che un magistrato non dovrebbe mai essere: uno strumento di lotta contro la criminalità, non il potere giurisdizionale, autonomo dall’esecutivo, che applica la legge.

Dico ciò perché lego la possibilità di ricerca del reato anche alla questione del dossieraggio: perché quelle informazioni raccolte si conservano anche se non riferite o non comportanti di per sé un reato, ma riguardanti ad un cittadino onesto ed illibato (che non ha strumenti legislativi per opporsi). Così che invertendosi l’onore naturale delle cose – è stato commesso un reato ricercò le prove –, si potrebbe dare che ci si muova all’incontrario: ricerca del reato anche senza avere notizia dello stesso.

La questione del dossieraggio è ancora più complicata. Perché i dossier in questione sono formati in forza di una legge, che personalmente (ma sono sempre mie opinabilissime opinioni) mi lascia molto perplesso: non a caso nel secondo paragrafo di questo articolo parlavo di “diritto” (che non sempre coincide con la legge: ciò vale anche per le Direttive UE).

Si tratta del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231 (Codice antiriciclaggio) che è, per l’appunto, l’applicazione di una Direttiva UE e che all’art. 35 impone ad una vastissima platea di soggetti l’obbligo di segnalare alla UIF (Unità di Informazione Finanziaria) operazioni “sospette”.

Una disposizione legislativa che trasforma in informatori di polizia (protetti: è garantito l’anonimato della segnalazione e la mancanza di conseguenze per il segnalatore) un coacervo di soggetti: commercialisti, avvocati (quando chiamati a gestire patrimoni, ma anche quando ricevono pagamenti in forme anomale), banche ed istituti finanziari, intermediari ed operatori finanziari e di assicurazione, società di gestioni; etc.: chi più ne ha più ne metta.

Il segnalato non ha strumenti per difendersi e può subire anche un sostanziale esproprio della propria liquidità, se una banca blocca un conto corrente. Una possibilità consentita dall’art. 49: «Le banche, gli intermediari finanziari e gli altri soggetti tenuti all’adeguata verifica della clientela, in caso di dubbi sulla liceità dei fondi oggetto di operazioni o di rapporti continuativi, possono sospendere l’operazione o il rapporto e comunicare all’Unità di informazione finanziaria per l’analisi e la segnalazione all’Autorità giudiziaria».

Il cittadino in questo caso è un suddito: non è neppure indagato, ma non può disporre del suo danaro, bloccato per un sospetto di un direttore di banca o di un intermediario finanzio: senza prova, senza bisogno di un reato, senza intervento del giudice.

Per di più sulla base di criteri generali molto vaghi e molto legati all’interpretazione discrezionale come quelli che indica il codice antiricettazione perché una operazione debba essere considerata sospetta dal soggetto “obbligato”. La legge, però, è molto precisa sulla sanzione per la mancata segnalazione: «Salvo che il fatto costituisca reato, ai soggetti obbligati che omettono di effettuare la segnalazione di operazioni sospette… si applica una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 3.000» che aumenta «da euro 30.000 a euro 300.000» se la violazione è grave o sistematica. Così che, per non sbagliare, qualcuno dei “soggetti obbligati” segnala qualsiasi operazione.

Una ultima considerazione. C’è in Italia la legge per garantire il diritto all’oblio a favore di chi sia stato assolto in un giudizio penale. Non c’è alcuna tutela per chi sia stato vittima di segnalazioni di “sospetto” di operazioni sospette. Forse farebbero bene i tanti legislatori “dossierati” in proprio a preoccuparsi del problema in maniera generale, chiedendosi perché conservare quelle informazioni, che andrebbero invece subito distrutte se non manifestanti un reato o se non acquisite in un procedimento penale. Ma fino ad oggi la generalità delle proteste politiche mi pare concerna la salvaguardia del proprio orticello personale, che qualcuno ha osato calpestare. Senza nessuna presa di posizione dalla parte dei cittadini.

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