mercoledì, 16 Ottobre, 2024
Il Cittadino

Assoluzione con confisca. I dubbi della CEDU sull’Italia

Il 10 luglio 2023 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha posto all’Italia una serie di interrogativi sui provvedimenti di prevenzione “antimafia” (che, sull’onda giustizialista che pervade il nostro Paese, sono stati estesi anche ad altri reati).

Si tratta di una decisione (tecnicamente “interlocutoria”, perché non definisce il giudizio) resa a seguito di un ricorso proposto da cittadini italiani. I ricorrenti, imputati in un giudizio penale in Italia di partecipazione ad associazione mafiosa erano stati assolti dall’accusa. Pur tuttavia, contestualmente all’assoluzione veniva disposta la confisca del loro patrimonio e, tanto per gradire, anche di qualcosa del patrimonio di alcuni familiari, in forza di quel non scritto “reato di parentela” che, l’ho sostenuto e lo riaffermo, in alcuni territori a densità criminale elevata inibisce soprattutto le donne: che appena provano ad emanciparsi vengono costrette, questa volta dallo Stato che le lega inesorabilmente al destino dei parenti maschi, al ruolo ancillare in cui la cultura mafiosa le ha sempre relegate.

Confisca avvenuta, quindi, nei confronti di un cittadino non soltanto presunto innocente, ma “innocente certificato”, perché assolto da un giudice dello Stato: non ammettendo, ovviamente, il sottoscritto la categoria davighiana dei colpevoli non dimostrabili («Non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti»).

Il punto è che la legge italiana non basa il provvedimento di confisca patrimoniale sulla prova di un reato, ma sulla presunta pericolosità della persona sottoposta a quella condanna patrimoniale.

Così, nel caso in questione, la persona dichiarata innocente ed assolta dall’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa, si vede applicata la sanzione patrimoniale della confisca sulla base di una sua supposta pericolosità: quindi dal semplice sospetto – elevato a certezza, nonostante non si sia raggiunta la prova – di appartenenza comunque all’associazione stessa.

Come dire: ti ho beccato, non sono riuscito a dimostrare la tua colpevolezza, ma adesso ti faccio scontare tutte ciò che mi riesce. È quella pena scontata prima della condanna, che spesso non arriva, risultando invece l’innocenza: ma in un sistema giudiziario così squilibrato e così irrimediabilmente compromesso che riesce a far passare anche dieci anni dall’accusa, prima di pervenire alla sentenza. Una pena accessoria non casuale – sono convinto in molti casi voluta – che sconvolge la vita di chi ci capita.

E sarebbe bene che ogni cittadino italiano tenesse presente che l’accusa di essere un mafioso o un camorrista può colpire chiunque, persino Enzo Tortora. Un martire dell’ingiustizia; un arresto con gogna mediatica della sfilata in manette (17 giugno 1983), che è una indelebile vergogna nazionale, dalla quale non è cambiato nulla, se non in peggio.

La CEDU, quindi, col provvedimento del 10 luglio ha espresso una serie di dubbi sulla possibile violazione dei Diritti dell’Uomo, da parte delle leggi italiane in materia; ed ha chiesto una serie di chiarimenti allo Stato italiano.

Numerose le questioni che hanno destato le perplessità della Corte Europea.

Questione di fondo – e base di tutto l’intervento in esame – è la violazione della presunzione di innocenza (sancita naturalmente anche dalla Convenzione, oltre che dalla nostra Costituzione).

Da qui il dubbio che la confisca disposta dal giudice statuale non sia basata sulla colpevolezza dei ricorrenti (l’accertamento della loro appartenenza all’associazione mafiosa), ma sul mero sospetto; e come si possa conciliare una condanna penale, sia pure solamente patrimoniale come la confisca, con l’assoluzione della stessa accusa di partecipazione. Questioni sintetizzate nell’interrogativo «se, alla luce dell’assoluzione del primo gruppo di ricorrenti dall’accusa di partecipazione ad un’organizzazione criminale di tipo mafioso, l’accertamento di particolare pericolosità e la successiva confisca dei beni era giustificata».

Violazione della Convenzione dei Diritti dell’Uomo che colpirebbe anche l’intangibilità del diritto di proprietà affermato dalla Convenzione: «nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale».

Qui il punto da chiarire è particolarmente delicato, trattandosi di stabilire se si tratta di una sanzione penale conseguente ad un reato.

Sul punto mi sia consentito affermare – con tutto il rispetto dovuto ai giudici della Consulta – che personalmente mi lascia perplesso il tentativo (sentenza Corte Costituzionale n. 24 del 2019) di inquadrare la confisca né come condanna penale, né come esproprio, ma riconnettendo la stessa alle modalità di acquisto ed alla provenienza dei beni confiscati. Argomento che non deve avere convinto neppure la CEDU la quale, sul punto chiede se «le autorità nazionali abbiano dimostrato che i beni confiscati avrebbero potuto essere di provenienza illecita in modo motivato, sulla base di una valutazione obiettiva delle prove fattuali, e senza basarsi su un mero sospetto».

Ma non solo. La CEDU chiede anche «se l’inversione dell’onere della prova quanto all’origine legittima dei beni acquisiti molti anni prima abbia imposto un onere eccessivo ai ricorrenti», col dubbio di fondo della legittimità di tale inversione nelle misure di prevenzioni, quando sono gli imputati che devono dimostrare la provenienza lecita dei loro beni, non l’accusa che deve dimostrare che gli stessi sono frutto di un reato.

Il Governo italiano deve rispondere entro il 13 novembre di quest’anno.

Dalle risposte date avremo un segno preciso se veramente si vuole, al di là delle resistenze dell’ANM, una riforma della giustizia per i cittadini e per il Diritto.

Direbbe Dante, rivolto a chi di competenza nel Governo: «qui si parrà la tua nobilitate».

 

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