domenica, 22 Dicembre, 2024
Società

Mai più carcere per donne incinte, madri o padri con bambini piccoli

Personalizzare la restrizione della libertà personale, una conquista di civiltà

Nei giorni scorsi il ddl a firma della deputata Debora Serracchiani è stato approvato a larga maggioranza e entro 15 giorni sarà esaminato dalla Commissione Giustizia della Camera.

Lo ha stabilito l’assemblea di Montecitorio, recependo la dichiarazione di urgenza manifestata dalla parlamentare. Trattasi della proposta di legge che viene dalla precedente legislatura Camera n. 103, recante
“Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, alla legge 26 luglio 1975, n. 345, e alla legge 21 aprile 2011, n. 62, in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”. Era stata, in
effetti, già approvata in prima lettura nel maggio 2022 alla Camera esattamente analoga proposta di legge per vietare la custodia cautelare in carcere per le donne incinte o conviventi con figli di età inferiore
a 6 anni, il cui iter rimase incompiuto per fine legislatura. Aveva per oggetto “Modifica in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”. Si escluderebbe, in pratica, dalla custodia cautelare in carcere la donna incinta, come anche la madre di figli di età inferiore a 6 anni con lei conviventi, ovvero il padre, qualora la madre sia deceduta o impossibilitata ad assistere la prole.

Saranno case famiglie protette o istituti a custodia attenuata per Madri (ICAM) a prendersene cura, insieme alle altre alternative offerte, rispetto alla normale detenzione nelle carceri, cosi come sarà definito
dalla norma che scaturirà dall’ennesimo disegno di legge che viaggia su corsia preferenziale. Non fare entrare più in carcere donne incinte e neanche madri di bambini piccoli.
Evitare che i bambini piccoli si trovino a vivere in carcere con le loro madri detenute, spostando il luogo di custodia cautelare o di espiazione della pena su strutture modello “case famiglie”, così che le madri con
figli conviventi di età inferiore ai 6 anni non finiscano in galera, come anche la donna incinta, prevedendo in ambo le situazioni anche il rinvio dell’esecuzione della pena, fermo restando applicabile il “regime speciale “ previsto dall’articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario.

La restrizione della libertà personale, nella fase di espiazione della pena inflitta, costituisce la sua funzione risarcitoria e rieducativa, secondo i basilari principi costituzionali trasferiti nelle norme sul trattamento penitenziario e rieducazione di cui alla specifica legge sull’ordinamento penitenziario, la n.354 del 1975, con le sue modificazioni ed integrazioni avvenute nel tempo, sempre con l’intendo di rispondere alle esigenze dei cambiamenti sociali sia sotto l’aspetto dei crimini commessi e sia con riguardo al rispetto della dignità umana.

Modifiche e integrazioni significative sono consistite, infatti, nell’introduzione del famoso 4-bis dal titolo “Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”, come all’epoca del terrorismo e, successivamente, estese ai reati indicati nell’articolo 41-bis dal titolo “Situazioni di emergenza” che contempla, in casi eccezionali, la sospensione di alcuni trattamenti di vita carceraria, ma comunque rispettando l’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che ne vieta quelli inumani o degradanti, così come ogni violenza fisica e morale in suo danno.

La personalizzazione della restrizione della libertà personale è sicuramente una conquista di civiltà giuridica, come è stato recepito nello stesso articolo 1 di tale ordinamento penitenziario, nello stabilire che: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Esso è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazione in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza, nazionalità, condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e credenze religiose, e si conforma a modelli che favoriscono l’autonomia, la responsabilità, la socializzazione e l’integrazione.”

Nei confronti degli imputati in genere il trattamento deve essere rigorosamente informato al principio di cui all’articolo 27 della Costituzione, non considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Le donne sono ospitate in istituti separati da quelli maschili o in apposite sezioni in numero tale da non compromettere le attività trattamentali. Alle madri è consentito di tenere presso di loro i figli fino all’età di tre anni e, dal 2018, per la cura e l’assistenza dei bambini, sono organizzati anche appositi asili nido. Inoltre le
condannate e le interniste possono essere ammesse alla cura e all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci, con le stesse condizioni contemplate per il “lavoro all’esterno”, così come la condannata, l’imputata o l’Internata madre di un bambino di età inferiore a dieci anni, è autorizzata ad assistere il figlio durante le visite specialistiche, relative a gravi condizioni di salute, fino anche al rinvio dell’esecuzione della pena, fermo restando applicabile il “regime speciale “ di cui al citato articolo 41-bis.
È bene dirlo che, sin dalle origini dell’ordinamento penitenziario del 1975, è stata posta attenzione, per la prima volta, alla condizione della gestante e della puerpera in ambito carcerario, consentendo di tenere con se’ i figli fino ai tre anni di età.

Nel 1976 sono stati introdotti specialisti come pediatri, ginecologi, ostetriche, puericultrici e assistenti all’infanzia per tutelare la salute non solo della madre ma anche del bambino, mentre nel 1986, con
la legge Gozzini, la n. 663, è stata introdotta la possibilità di una detenzione domiciliare in caso di buona condotta della madre per pene non superiori ai 2 anni.

Poi la legge “Simeone-Saraceni n. 165, del 27 maggio 1998, definita legge”svuota carceri”, ha elevato il beneficio anche a detenute con pene fino a quattro anni, elevando a 10 anni l’età dei figli conviventi con
la condannata. Nel 2001 con la legge n. 40 dell’8 marzo “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”, è stata prevista la possibilità di una carcerazione domiciliare nell’abitazione della detenuta o in strutture di assistenza, da cui ne rimanevano escluse le donne senza fissa dimora.

Gli ICAM (Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri) e le case famiglia protette sono oggi le alternative alle sezioni Nido nelle carceri femminili.

Ci si augura che la proposta di legge in esame sia solamente un ulteriore traguardo di civiltà giuridica e di spiccato senso di umanità e non anche un binario privilegiato di impunità, con violazione di altri principi costituzionali.

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