La vera avventuriera della storia è Penelope, perché davvero infinito è solo il viaggio che ti conduce dentro il tuo cuore. Questa figura chiusa in attesa, che si schiude e finalmente parla, e rivede la figura dell’uomo e non sta più composta in attesa di un eroe che eroe non è, ci delizia e ci interroga, ci guarda negli occhi e parla sicura, senza più temere il buio, attraverso una straordinaria Federica Carruba Toscano. Questa Penelope, andata in scena al teatro 1 del Mattatoio per il Romaeuropa Festival, nasce dal genio creativo di Martina Badiluzzi, regista e drammaturga dell’opera, insieme ad Arianna Pozzuoli, aiuto regia, Giorgia Buttarazzi, consulenza artistica, Samuele Cestola, progetto sonoro, Fabrizio Cicero, disegno delle luci. Un gruppo di giovani artisti eccellenti, pieni, consapevoli che ha realizzato, in co-produzione con il Romaeuropa Festival, un opera necessaria per le donne, ispirata per gli uomini.
Penelope è una donna sottoposta alle intemperie del tempo, conosce la propria intelligenza, ormai conosce se stessa, la saggezza che l’ha portata ad essere un’eroina di resistenza e determinazione. Conosce il suo corpo, conosce la sua lingua, sa parlare e ora parla riempiendo il suo deserto emotivo di parole che sono una prima persona singolare, un monologo. La bocca è la porta del corpo e della mente che dà sul mondo esterno. È il luogo da cui entra il cibo, da cui escono le parole. È frontiera, è limite. Ed è sulle labbra di un’attrice che prende corpo questa voce, questa donna, questo canto. Come spiega Martina Baldinuzzi: “Esiste una storia non scritta o non scritta del tutto, ed è lì che si concentra il mio lavoro. Se dal punto di vista autoriale mi interesso alla scrittura delle donne, come regista e attrice mi interesso a tutto ciò che vive sotteso alle parole. Le donne sono state troppo a lungo il pubblico pressoché silenzioso di uno spettacolo che ha ormai consumato le storie di dominio maschile. Che la pedante ripetizione a cui la Storia continua a sottoporci non stia dicendo che è il momento che la penna passi di mano? Naturalmente, quella che si vuole suggerire non è una lotta di genere, piuttosto una reale condivisione degli spazi dell’esistenza.” Queste invece sono le parole di Federica Carruba Toscano, superba in questo ruolo di giovane, contemporanea Penelope, a cui abbiamo rivolto alcune domande.
Federica, abbiamo visto in scena una moderna Penelope qual è l’intento del vostro lavoro?
Stiamo lavorando ad una trilogia, prima con Anastasia, ora con Penelope, e seguirà l’indagine delle sorelle Bronte. Il nostro obiettivo è lavorare su delle figure femminili, rivisitandole attraverso il nostro quotidiano, questo nasce dalla voglia di indagare, più che la storia in sé, delle circostanze. Questo per far emergere il rapporto con il potere, con il maschile, ma anche con le proprie crepe, le proprie ferite. Quando Martina Baldinuzzi mi ha fatto questa grande proposta, Penelope, appunto, nata dal libro di Margaret Atwood “Il Canto di Penelope” in cui questo personaggio offre per la prima volta il suo punto di vista. Liberandoci di una Penelope scolastica, accademica, come ci viene trasferita, subordinata alla figura di Ulisse.
Dietro l’apparente stasi, data dall’attesa, quanti sono invece i turbamenti, i movimenti interni che il femminile trattiene?
Infatti il ragionamento su cui fonda l’opera è legato alla questione di quanto la donna si senta legittimata ad essere, a prescindere dalla figura maschile. Questa è una domanda che anche io come donna mi sono posta. Nello spettacolo parlo di un post-it su cui è scritto il grande sogno di una donna, avere un uomo accanto e dei bambini. Sembra una banalità, ma non lo è. È una visione ancora molto radicata, riguarda anche me, ed è stato interessante, in questo lavoro, affrontare un viaggio di indagine senza pudori sui propri archetipi di base, anzitutto dentro me stessa.
Per il femminile la relazione è fondativo di identità. Credi ci sia qualcosa di eterno nella figura di Penelope e nel suo bisogno di esistere attraverso lo sguardo dell’uomo?
Assolutamente sì. Questo infinito vagare di lui, diventa l’infinito vagare di lei. È veramente un moto che potrebbe essere definito perpetuo in noi, perché, anche quando tu pensi di averlo sradicato, in realtà resiste sempre da qualche parte, nel profondo. Noi ci siamo volute prendere la libertà di raccontare una liberazione, che arriva attraverso una maledizione che lei scaglia, in forma di tempesta, contro Ulisse e la sua truppa. Il nostro scopo è stato un ideale scollamento di questi archetipi che ci riguardano. Il legame ci torna con la figura del cane, Argo che arriva all’epilogo e che appartiene non più all’originario padrone, ma alla donna che con lui ha condiviso vent’anni.
*Fotografia di copertina di Guido Mencari* | *www.gmencari.com*