mercoledì, 1 Maggio, 2024
Società

La vocazione dell’avvocato e il valore della toga

Intervista all'avvocato Fabio Viglione

Con l’Avvocato Fabio Viglione, penalista e patrocinante in Cassazione abbiamo parlato della sua carriera, della giustizia, della condizione dei detenuti. Alla fine ci ha lasciato un prezioso consiglio per i giovani che vogliono intraprendere il suo stesso percorso.

Cosa l’ha spinta a scegliere questa professione?
Già quando frequentavo l’ultimo anno di liceo ero affascinato dalla figura dell’avvocato penalista. Lo immaginavo come in grado di stare accanto alle persone additate da tutti e messe all’angolo, ma che avevano necessità di una figura professionale credibile ed in grado di far valere i propri diritti. Pensavo ai tanti errori giudiziari della storia ed alla capacità di un avvocato di consentire all’accusato di dar forma alla sua difesa. Ero poi affascinato dalla figura dei grandi penalisti del secolo scorso, raffinati giuristi e soprattutto uomini di grande cultura umanistica. La mia famiglia, poi, ha sempre creduto in me e mi ha incoraggiato ad intraprendere questo cammino.

Qual è stato il processo che l’ha messa più in crisi? Come gestisce, nell’ambito professionale, l’aspetto emotivo?
Difficile individuarne uno solo dopo venticinque anni di professione. Spesso i processi si presentano difficili anche perché nella fase delle indagini la difesa non sempre riesce ad offrire il proprio contributo e l’ipotesi di accusa può nutrirsi di equivoci. C’è quindi il rischio che una palla di neve dia luogo ad una valanga con la quale poi è necessario fare i conti. Senza parlare poi di quando, senza il contributo spesso chiarificatore della difesa e dell’accusato, la tesi dell’accusa si radicalizza e si amplifica attraverso i mezzi di informazione. A quel punto, quando ci si presenta innanzi al giudice si ha la sensazione di dover già “appellare” una condanna mediatica. Quanto all’aspetto emotivo, è fondamentale mantenere il massimo equilibrio. Chi arriva in uno studio cerca rifugio ed assistenza anche psicologica nel proprio penalista che, a mio avviso, deve essere in grado di calibrare il rapporto sulle specifiche sensibilità individuali. Questo significa che da una parte è necessario comprendere a fondo i disagi e le preoccupazioni per fornire strumenti adeguati di “sopportazione” del percorso, dall’altra che bisogna mantenere sempre grande lucidità per poter riuscire a conferire, il massimo grado di apporto tecnico. Noi siamo dei tecnici, pur se appassionati, non dei tifosi. La nostra è una professione nella quale la componente emotiva gioca un ruolo importante e serve quindi lavorare molto sull’equilibrio. Ed è importante avere sempre grandi stimoli e voglia di portare avanti la propria rivendicazione di diritti, senza mai trattare l’impegno professionale come una semplice pratica, un fascicolo sulla scrivania.

Cosa pensa della riforma sulla giustizia? Secondo lei quali sarebbero i cambiamenti necessari per quanto riguarda la procedura penale, il sistema sanzionatorio e la giustizia riparativa? E lei se avesse la possibilità di cambiare il sistema giudiziario italiano, cosa farebbe?
Credo che uno dei problemi più sentiti sia quello dei tempi di definizione del processo. Lo Stato ed il sistema giudiziario devono essere in grado di garantire la ragionevole durata del processo e farlo senza ridurre le garanzie e i diritti. Siamo ancora indietro da questo punto di vista anche rispetto ai paesi europei. Il cittadino ha diritto ad essere giudicato in tempi ragionevoli perché la sua vita continua a scorrere inesorabilmente. La vita non aspetta e quello che abbiamo di più prezioso è proprio il tempo. Il processo che si trascina troppo a lungo è comunque massimamente dannoso oltre che “ingiusto”. Guardiamo al processo penale: se il cittadino verrà assolto avrà trascorso troppo tempo da imputato, se, invece, sarà condannato dovrà scontare la pena a notevole distanza dal reato. In qualche modo, come se si facesse scontare la pena ad una persona diversa. E veniamo proprio al sistema sanzionatorio che è oggetto della sua ulteriore domanda. La pena deve tendere alla riabilitazione, deve essere risocializzante. Forme alternative al carcere, dati alla mano, consentono di ridurre anche il pericolo di recidiva che è un importante obiettivo da perseguire nell’interesse del condannato e della comunità. In questo senso, lo Stato si presenta forte quanto più è in grado di dispensare legalità e diritti anche a chi ha infranto le regole ed è chiamato a scontare la pena. Cosa farei se potessi cambiare? : aumenterei il numero dei magistrati, attualmente inadeguato per la mole di processi in corso; depenalizzerei molti reati minori trasformandoli in illeciti amministrativi per consentire ai processi per reati di maggiore allarme sociale di marciare spediti, interverrei per evitare eccessi di ricorso alla cosiddetta “carcerazione preventiva”, spesso priva di effettive esigenze di cautela e separerei le carriere tra chi accusa e chi giudica in modo da rafforzare maggiormente le autonomie e la credibilità del giudice terzo.

Perchè la maggior parte degli italiani ha un’idea negativa del sistema giudiziario italiano?
Credo che molto dipenda anche dalle lungaggini che notoriamente e frequentemente caratterizzano un accertamento giudiziario. Il cittadino è desideroso di risolvere un contenzioso in tempi rapidi. Vuole trovare chi gli dia ragione quanto prima e chi tuteli i suoi diritti in tempi rapidi. Penso alla giustizia civile. Quella del quotidiano. Per la giustizia penale rilevo invece altra voce di sfiducia. Quando da una condanna roboante si passa ad un’assoluzione, i cittadini restano disorientati. Spesso si dicono, “ma come è possibile?” e finiscono per perdere fiducia nei confronti dell’istituzione. La verità giudiziaria si accerta nel processo e con le regole del processo. Quando un’accusa viene spettacolarizzata e si danno per acquisiti anche mediaticamente dati incerti o addirittura assenti si può materializzare un ribaltamento della pronuncia. Questo non deve scoraggiare ma, al contrario, far pensare che il sistema permette di correggersi. Avere più gradi di giudizio è una garanzia per tutti ed un sistema che li prevede consente di ridurre maggiormente il margine di errore. A volte sono le rappresentazioni mediatiche dei fatti ad alimentare la sfiducia perché quanto si accerta nelle aule è lontano dalla narrativa pubblica. La verità è che si dovrebbe praticare con più convinzione la presunzione di non colpevolezza per evitare che alcune assoluzioni siano vissute come inspiegabili o figlie di un sistema impazzito. In realtà a volte le condanne mediatiche precedono l’accertamento. Spesso mi chiedono persone non del settore, “avvocato com’è possibile che quella condanna a trent’anni è diventata assoluzione? Non si capisce niente”. Ora, posto che, anche l’assoluzione in appello può contenere errori, cosa può essere accaduto ? Evidentemente, rivalutate le prove o integrate da altri elementi di valutazione, non è stata dimostrata la colpevolezza dell’imputato. La giustizia è amministrata da uomini che in quanto tali possono sbagliare. Il sistema garantisce per quanto possibile ma è la verità giudiziaria quella che ne scaturisce.

Si dice innocente fino a prova contraria, ma purtroppo molto spesso, nei casi con una grande risonanza mediatica, chi è accusato viene giudicato colpevole dall’opinione pubblica prima ancora che inizi il processo. Qual è la sua strategia in questi casi e perché crede che avvenga ciò?
La voglia di trovare spesso rapidamente colpevoli e le certezze anticipate sono un grave problema. La presunzione di innocenza finisce per essere un monotono refrain troppo abusato sempre a parole e poco praticato nei fatti e negli atteggiamenti.

In genere io tendo a mantenere, per quanto possibile, un profilo di riservatezza e cerco di non dar sfogo a difese fuori dall’aula. Anche perché il meccanismo mediatico è incontrollabile e chi ne rimane imbrigliato viene esposto in modo pericoloso. Si finisce per entrare nella vita di una persona mettendola a soqquadro. Come se si entrasse in una stanza e si rovesciassero i cassetti, gli armadi, si ribaltasse il letto, per cercare una penna. La difficoltà sta proprio nel mantenere equilibrio e non farsi fagocitare da una rappresentazione pubblica nella quale spesso l’accusato non si riconosce ma si trova a dover fare i conti. Non c’è una ricetta o uno schema riproponibile come usbergo. Ci vuole tanta forza interiore ed è bene lavorare con massima dedizione e sacrificio per ottenere quella ristrutturazione della verità e del profilo soggettivo nella sede giudiziaria. Anche se poi, purtroppo, l’eventuale assoluzione sarà rinchiusa in un trafiletto… Ma su questo si sta lavorando ed è necessario cambiare in fretta, soprattutto nell’era della informazione nella rete.

Qual è effettivamente la condizione delle carceri italiane? Come si riflette questo sul nostro paese?
Le carceri sono sovraffollate. Talvolta non sono garantiti neanche i tre metri quadri per ogni singolo detenuto, ritenuti il minimo per assicurargli uno spazio di vivibilità in cella. Non mancano poi frequenti criticità che riguardano le strutture anche dal punto di vista igienico. Con il caldo, il sovraffollamento diventa ancora più difficile da fronteggiare. Secondo recenti dati sulle presenze negli istituti di reclusione, aggiornati a qualche mese fa, attualmente ci sarebbero quasi 55.000 persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di circa 51.000 posti. Dunque un tasso di sovraffollamento importante . Purtroppo anche la situazione dei suicidi in carcere è un altro dato di massimo allarme. Come riferisce Antigone, associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale nata negli anni 80, nei primi mesi del 2022 si sono registrati 59 i suicidi. Più di uno ogni quattro giorni ed il fenomeno ha mostrato segni di preoccupante aumento nel mese di agosto. Credo che servano adeguati investimenti per rendere le strutture in grado di garantire condizioni adeguate per tutti i detenuti e la consapevolezza che si tratti di una priorità e di un dovere avvertito da tutti. La comunità non può dividersi tra chi è fuori (e va tutelato) e chi sta scontando la pena (e va dimenticato). Uno Stato di diritto si riconosce proprio dalla capacità che esprime di garantire concretamente i diritti “degli ultimi”.

Nelle serie televisive vediamo sempre il sistema giudiziario americano come quello nel quale si realizza la parità assoluta fra le parti, può sfatare questo mito?
I film americani tendono, giustamente, a spettacolarizzare la fase del confronto in aula tra chi accusa e chi difende. Devo dire, al netto di ogni altra considerazione, che il giudice viene rappresentato il più delle volte come terzo ed equidistante. Un arbitro della contesa che accoglie o respinge le “obiezioni” delle parti. Ora, lasciando da parte la macchina da presa, il concetto di parità è piuttosto complesso e merita qualche considerazione. Ovviamente senza pretese di esaustività. Nella fase delle indagini, fino a quando non si arriva davanti al giudice terzo che è quello del dibattimento, vi è un netto squilibrio. L’accusa svolge la sua attività investigativa in una fase sostanzialmente segreta nella quale l’accusato e la difesa hanno maggiore vulnerabilità. Sono ignari di quanto sta emergendo e sostanzialmente praticano una difesa “al buio”…Solo successivamente, quando si arriva davanti al giudice ed inizia il vero e proprio processo nasce un confronto in un terreno in cui vi è sostanziale parità nel contraddittorio e si gioca con maggiore equilibrio. Ma una vera parità è ontologicamente impossibile nel complesso se solo si guarda alle disponibilità economiche che distinguono le parti. Sostanzialmente illimitate quelle dell’accusa, certamente più modeste quelle dell’imputato. Si pensi a consulenti tecnici ed alle prove scientifiche in generale che necessitano di alte professionalità. Nei processi complessi, con più parti, solo per estrarre le copie degli atti da studiare la difesa deve affrontare spese talvolta ingenti. Insomma, una parità vera e propria non può dirsi esistente. Certo, le regole nel dibattimento consentono di confrontarsi alla pari nel contraddittorio ma è una parità che interviene quando lo squilibrio ha già potuto manifestarsi. Dunque, credo di poter sfatare il mito se vissuto in termini assoluti.

Lei ha avuto come mentore il celebre avvocato Siniscalchi, qual è la cosa più importante che ha imparato da lui e vista la sua esperienza quali suggerimenti si sente di dare ai giovani che stanno iniziando il suo stesso percorso?
Tutto quello che ho professionalmente imparato lo devo a lui; quello che non sono riuscito a trattenere del suo insegnamento lo ascrivo a me. Posta questa doverosa premessa, devo dire che ho avuto la fortuna di avere un vero maestro. Un avvocato di grandissima raffinatezza giuridica e con grandi capacità empatiche. Un vero fuoriclasse di una cultura immensa ed una straordinaria umanità. Mi ha insegnato tanto senza mai salire in cattedra. A volte bastava osservare il modo con il quale si rivolgeva al collega, all’assistito, al magistrato, per trovare le risposte più feconde ai tanti interrogativi che i giovani si pongono quando intraprendono la professione. Mai inutilmente polemico e sempre moderno e lungimirante nella proposta difensiva. Non credo ci sia una cosa più di altre che ho imparato. Certamente la voglia di portare avanti l’impegno assunto con dedizione e serietà senza mai farmi condizionare da alcun evento esterno.

Ai giovani oggi sento di dire che, nonostante le tante difficoltà se sentono forte la “vocazione”, mi si conceda l’estremizzazione del concetto, devono andare avanti nel progetto ed investire sulla propria passione. Dico qualcosa che va controtendenza perché sento in tanti dire che i giovani dovrebbero guardare altrove, verso altri sbocchi di realizzazione professionale. Ci sarà sempre bisogno di avvocati determinati ed appassionati a difendere il valore della toga, baluardo di libertà, e di rispetto dei diritti in uno stato democratico. Voglio pensare che le maggiori difficoltà non siano in grado di scoraggiare la passione, quella autentica, dei giovani che vorranno conquistare spazio e mettersi all’opera con ancora maggiore determinazione e voglia.

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