giovedì, 18 Aprile, 2024
Il Cittadino

Processi Regeni e Zaki: diritto e barbarie

L’annullamento da parte della Corte d’Assise di Roma, Terza Sezione, del processo agli agenti egiziani accusati dell’omicidio del ricercatore triestino Giulio Regeni ha destato una certa indignazione, qualche scomposta reazione e la ovvia delusione dei genitori e dei familiari.

Personalmente ho un’idea diversa, che cercherò di svolgere in queste righe.

Devo però, innanzitutto, per evitare fraintendimenti, esprimere la mia piena solidarietà alla famiglia Regeni per un dolore che neppure riesco a concepire e la mia indignazione sia per la tortura ed il barbaro omicidio, che per il muro di gomma opposto da un regime che ignora le libertà ed i diritti delle persone.

Ciò posto, dichiaro la mia assoluta felicità, ed il mio orgoglio da italiano, per il trionfo – assoluto, cristallino – della Giustizia nella decisione della Corte d’Assise romana.

Ma anche, consentitemi, il mio compiacimento di appartenere alla categoria professionale, l’avvocatura, che ha espresso i quattro avvocati d’ufficio – li voglio citare per nome, anche se non li conosco: Paola Armellin, Filomena Pollastro, Tranquillino Sarno e Annalisa Ticconi – difensori dei quattro agenti segreti egiziani, che senza neppure avere mai visto i loro difesi, hanno tutelato e garantito i loro diritti.

Perché se non c’è la garanzia assoluta dei diritti degli imputati – anche di quelli accusati del più ripugnante delitto, come nel caso in questione – non si sarà mai fatta Giustizia.

La decisione della Corte d’Assise si basa sulla semplice constatazione che non sia stato notificato alcun atto processuale agli imputati. Fatto che impedisce l’esercizio del diritto di difesa e che, se per ipotesi fosse stato ignorato dalla giustizia italiana, non avrebbe certo superato la verifica della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Ma che, soprattutto, avrebbe ridotto la giustizia italiana ad una parodia, la avrebbe retrocessa allo stesso ruolo di quella egiziana, che ci sta indignando tutti allorché pensiamo al caso Zaki.

L’azione dei pubblici ministeri romani era limitata ai soggetti ritenuti gli esecutori materiali della tortura e dell’omicidio del povero Giulio Regeni: vera però l’ipotesi accusatoria si dovrebbero ricercare e perseguire anche i mandanti: probabilmente passando ad un livello politico ed a garanzie diplomatiche forse intangibili da parte della magistratura ordinaria.

Così una eventuale condanna dei quattro imputati – gli agenti del dipartimento di sicurezza del Cairo, Tariq Sabir e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e due 007 del servizio segreto interno egiziano, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif – senza alcuna possibilità concreta di vederla eseguita e con la consapevolezza di essere stata comminata senza assicurare le garanzie degli imputati, avrebbe forse soddisfatto personali desideri di vendetta, ma avrebbe lasciato l’amaro in bocca, forse anche alle persone più direttamente lese.

L’accostamento del trionfo che la Giustizia italiana ha celebrato ieri nell’aula bunker di Rebibbia – il Diritto sopra ogni cosa, che si realizza non solo quando condanna – alla barbara procedura, la caricatura di un processo, che si sta celebrando in Egitto contro un altro ricercatore, il giovane egiziano Patrick Zaki, mi giunge spontaneo.

Spontaneo nel giorno in cui il Capo dello Stato – e Presidente del CSM – Sergio Mattarella, in un messaggio all’ANM ricorda che «occorre impegnarsi per assicurare la credibilità della magistratura, che… ha bisogno di un profondo processo riformatore ed anche di una rigenerazione etica e culturale».

Perché il riconoscimento così autorevole di una cultura deviata che ha rischiato di far precipitare anche il nostro sistema giudiziario nella barbarie è evidente.

La strada è lunga ed irta di ostacoli: e la magistratura, da sola, non può farcela, senza che il legislatore intervenga, dopo quasi mezzo secolo di legislazione d’emergenza, con leggi che, finalmente, siano in linea col Diritto, eliminando possibilità di abusi e rispettando la presunzione d’innocenza stabilità dalla nostra Costituzione e dal Diritto: magari soltanto per evitare a noi tutti di dovere risarcire ogni anno un migliaio di cittadini per ingiusta detenzione.

Perché non è in linea col Diritto il caso Zachi, del quale questa rubrica si è già occupata almeno in un paio di occasioni, ma che è più efficacemente descritto in un coraggioso articolo di Ilario Ammendolia, “L’urlo di Zaki” (il “Quotidiano del Sud”, 17 settembre 2021), che da lì prende lo spunto per trattare di un tema caro anche al “cittadino”, quale la custodia preventiva, spesso abusata e che, in Italia, se si ipotizzano reati di mafia, può prolungarsi ben oltre i termini previsti in Egitto.

Abuso della custodia preventiva che proprio lo scorso giovedì è ritornata in primo piano con una lunga intervista di Gaia Tortora, in Omnibus, La7, a Rocco Femia, l’ex sindaco di Marina di Gioiosa Jonica – uno dei miei luoghi del cuore -, che ha scontato cinque anni di carcere ed una inconcepibile gogna mediatica prima di essere assolto da ogni accusa.

Ecco, perché parlo di trionfo e di orgoglio, per il provvedimento della Corte d’Assise di Roma: perché decisioni come quella, indubbiamente coraggiosa (sarebbe stato più facile assecondare l’onda unanime nel riconnettere la colpevolezza degli imputati egiziani), ci dicono che, nonostante tutto, bisogna avere fede nella Giustizia; e combattere per la Giustizia.

Anche oltre dubbi e delusioni che qualche volta ho espresso da queste colonne.

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