Come è stato possibile che un gruppo politico dirigente abbia potuto e saputo ideare il progetto di unire le culture del riformismo italiano intorno ad una semplificazione insopportabile: l’incontro privilegiato fra una parte del mondo cattolico, quello di sinistra, e i postcomunisti, sconfitti dalla storia? Insopportabile perché la storia del riformismo italiano era, come è, più ricca e complessa, sia con riferimento alla storia nazionale, che alle radici profonde nel teatro europeo.
Sono stato un fondatore del PD, periferico e torinese, non ho partecipato alla sintesi romano-nazionale dell’elaborazione, ed è forse per questo che ne sono stato fondatore, ignaro. Era il 2006-07, secondo governo Prodi, c’era l’urgenza nel contrasto al berlusconismo e nella difficoltà di far sintesi, in presenza di una sinistra ormai scomposta, di creare una formazione centrale e democratica che fosse riferimento per il Centrosinistra e per il Paese. Una sintesi che andava fatta rispettando la storia, e le tante sensibilità di pensiero, esprimendo un progetto di governo, capace di unire nel nome del Paese.
Tre erano le cose da fare ma nessuna fra queste fu oggetto di riflessione.
- La prima: far incontrare e legittimare tutte le componenti nobili del riformismo italiano: quella cattolica, nella sua complessa unità, quella di sinistra, nella sua articolazione che andava dal mondo liberalsocialista a quello azionista, da quella ambientalista alla radicale, e infine all’area postcomunista, sconfitta dalla storia ma vivace in Italia grazie alla lungimiranza di quel vecchio grande uomo che fu Palmiro Togliatti (1944, svolta di Salerno del PCI), impegnato a costruire, con la prospettiva dell’unità antifascista e repubblicana, un partito comunista nazionale, democratico e popolare. L’obiettivo di far incontrare le parti, non in funzione di tessere o di mezzi economici ma di dignità delle singole culture politiche, fu sostituito con docce d’ipocrisia egualitaria fra le parti in causa. Fu un errore grave perché un così vasto rassemblement poteva unirsi in termini di politica culturale, nel rispetto delle diversità.
- La seconda: unire con metodo laico e trasparente le forze riformiste intorno a un progetto di governo che sapesse andare oltre le ideologie e le singole storie partitiche o di gruppo, incontrando l’Italia reale e gli italiani. Poi la mission, né scontata né fondamentale, di mediare con l’estrema sinistra. Erano gli anni di Bertinotti e di Rifondazione Comunista. Anche questo secondo obiettivo del progetto di governo fu sottovalutato. Ma oggi, come allora, aleggia una domanda: come unire un così vasto PD sui temi eticamente sensibili, sui diritti civili? La mia risposta è semplice, fin dal 2007: libertà di opinioni fra i membri del partito, e netta separazione fra attività di governo e attività di legislazione: i temi che dividono trasversalmente un Paese bisogna saperli trattare nel Paese, in Parlamento.
- La terza: costruire una forma-partito democratica, certo non americana, come si fantasticò, aperta a raccogliere la reale partecipazione della più vasta presenza popolare. Ma anche di questo non se ne fece niente e il PD divenne un partito senza anima, senza cultura politica, senza progetto, senza organi decisionali, senza organizzazione. Tutto fu affidato a piccoli interessi di consorteria, e dunque all’improvvisazione. Ne fu effetto il disperdersi delle migliori tradizioni del riformismo democratico, il miglior pensiero, i migliori uomini, il fallimento di 25 anni di vita democratica in Italia.