Secondo quanto è emerso dai dati elaborati da Istat e Bankitalia con il calo demografico in atto la popolazione italiana nel 2050 passerà da 59,2 milioni di abitanti censiti nel 2021 a 54,2 milioni, e nel 2070 a 47,7 milioni. È necessario spingere per la partecipazione al mercato del lavoro di donne e giovani, in particolare nel Mezzogiorno, investire nella formazione, e rafforzare i servizi per l’infanzia e la famiglia. Ciononostante, un incremento della natalità avrebbe effetti solo nei prossimi 20 anni: possiamo fare tutti gli sforzi che vogliamo ma questo non risolve il problema della caduta della popolazione. Per contenere gli effetti negativi delle denatalità è necessario migliorare il saldo migratorio, attrarre lavoratori dall’estero, il cui afflusso è fortemente calato nell’ultimo decennio”, ha notato il governatore di Bankitalia Ignazio Visco. “Sarà poi importante il disegno di politiche pianificazione degli afflussi coerenti, da attuare con politiche di integrazione nel tessuto sociale e produttivo, e una pianificazione urbana più attenzione all’offerta abitativa, che deve arrivare non solo dalle iniziative dello Stato ma anche dei privati”, ha aggiunto. Per il presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli, “il sisma demografico che ci colpisce merita analisi serie perché possa trovare risposte serie. Il futuro dipenderà dalla nostra capacità di correggere il presente, anche perché per i prossimi vent’anni quello che è fatto è fatto. È necessario correggere le tendenze negative in atto attraverso la ripresa della fertilità e l’apertura, gestita adeguatamente, all’immigrazione”. Gli scenari mediani evidenziano che “dal 2014 la popolazione ha smesso di crescere, e questo è dovuto principalmente al rapporto negativo tra nascite e decessi, e questa forbice si sta sempre più allargando. Stiamo andando incontro, caso unico nell’Europa occidentale, ad una popolazione che decresce annualmente e invecchia anno dopo anno”, ha detto Marco Marsili (Istat). “Emerge inoltre che entro il 2030 la popolazione del Mezzogiorno diminuirà del 17% contro il – 4% del Nord e il -7% del Centro”, ha aggiunto Marsili. Passando ai divari Nord- Sud, in termini di crescita economica e di investimenti, Marta De Philippis di Banca d’Italia ha spiegato: “il rapporto investimenti-Pil, a partire dagli anni ’60, fino all’inizio degli anni ’90, il Mezzogiorno ha un livello molto più elevato, perché erano gli anni in cui si faceva ampio uso degli investimenti pubblici in infrastrutture, che hanno aumentato molto il livello di investimenti. Con la fine dell’esperienza delle partecipazioni statali alla fine degli anni ’90, e anche con l’ingresso dell’Italia nell’Ue, si è riallineato il rapporto tra gli investimenti e il Pil tra Sud e Centro-Nord”. Sulla crescita economica nelle due macroaree ha aggiunto: “C’è stato un progressivo rallentamento in tutto il Paese, più intenso soprattutto nel Mezzogiorno. A partire poi dagli anni ’70 la bassa crescita al Sud è stata guidata molto da un sottoutilizzo del fattore lavoro, che adesso spiega più della metà del divario Nord-Sud in termini di Pil pro-capite, e poi anche che nell’ultimo trentennio il contributo del capitale alla crescita del Mezzogiorno, che l’aveva trainata durante il periodo degli anni 60-90, è diminuito marcatamente”.