venerdì, 22 Novembre, 2024
Il Cittadino

Viva l’Italia, le Angele e le Immacolate

A qualcuno potrà sembrare strano, ma le proposte linguistiche della commissaria europea alla parità, Helena Dalli, non mi hanno sorpreso più di tanto.

Intanto perché il problema del linguaggio pone una questione di sensibilità che viene da lontano e che non era da noi italiani sconosciuta, finanche in epoca precedente l’invenzione del politically correct. Basta aver mente all’antichissimo ammonimento popolare che «non si parla di corda in casa dell’impiccato» per rendersi conto che, in base alle circostanze ed all’interlocutore, non è opportuno, forse neppure lecito, usare alcune parole e affrontare alcuni argomenti.

Non c’era, quindi, bisogno, di alcuna raccomandazione comunitaria: almeno non nella nostra bella Italia, la nazione superiore ad ogni altra, come ha in settimana attestato Angela Merkel; reiterando con ciò una invidia da parte degli Alemanni che dura da secoli, forse millenni.

Benedizione angelica che è stata esaltata dai nostri media, vittime anch’essi della sindrome italo-francese, che dura dall’epoca di Giulio Cesare e Vercingetorige, mirabilmente colta da Goscinny e Uderzo in Asterix, e che si riassume nei seguenti quattro assiomi: (1) gli italiani hanno un senso di inferiorità rispetto tutto a ciò che è straniero; (2) i francesi hanno un senso di superiorità rispetto a tutto ciò che è straniero; (3) gli italiani si ritengono sicuramente superiori soltanto ai francesi; (4) i francesi si ritengono sicuramente inferiori soltanto agli italiani.

La verità è che il tentativo della Dalli, dalli e ridalli [irresistibile gioco di parole! non mi sono trattenuto: perdonatemi, NdR], è stato ritirato, è rientrato, forse un po’ per paura del ridicolo. O forse perché è stato recepito come una ulteriore tentativo di americanizzazione della nostra cultura: inteso tale termine non come sapere, ma come modo di essere.

Ora, nelle nostre contraddizioni di italiani, riserviamo agli americani una ammirazione smisurata. Gli americani ci piacciono, sono fisicamente più grandi di noi,  normotipi italioti celebrati nella nostra inferiorità fisica da Gianni Brera. Il quale, magnificamente e senza pregiudizio alcuno, chiosava su etnie e limiti fisici, fino al tachipsichismo dei meridionali: ciò che oggi qualsiasi direttore di giornale casserebbe, ma che all’epoca non impressionava più di tanto. Verso l’America, dicevo, abbiamo una vera e propria ammirazione: le macchinone americane, nelle quali entravano quattro cinquecento nostrane, i dollari, i cow-boy, il western di imitazione, Hollywood: un sogno e un’ammirazione sconfinata (per tutti l’Alberto Sordi di “Un americano a Roma” e il mito di Kansas City). Eppure quando si voleva esprimere un dileggio di un individuo sulla base della sua pochezza intellettiva, il massimo insulto concepibile era proprio “cazzone americano”. Boh! Misteri nostrani.

Ma è proprio dall’America che ci arrivano i malintesi del politically correct.

La situazione di base era, però, ben diversa. Lì il razzismo, per la grande presenza di negri (perché non si può dire afroamericani parlando di razzismo: che era proprio verso i negri), era palpabile. Perché Martin Luther King (lo rivendico sempre: in Calabria, a Locri, nel 1969 un gruppo di quindicenni fondammo un circolo a lui intitolato) non era un visionario; perché nel 1955 ci è voluto un semplice e innocuo gesto, quello di Rosa Parks a Montgomery, per rivoluzionato il continente.

In Italia ed in Europa non c’era un vero e proprio razzismo, forse proprio per la mancanza di materia prima. Pure i saraceni erano nemici invasori temuti in quanto tali (“mammaliturchi”) e non per ragioni razziali. L’odio e la persecuzione verso gli ebrei, più volte ricorrente nei due millenni dopo Cristo, ha avuto varie irragionevoli ragioni, spesso indotte o imposte per legge, come nel fanatismo nazi-fascista, ma ha avuto ampli esempi di solidarietà anche eroica verso gli ebrei.

La situazione oggi è completamente diversa. L’antirazzismo è un valore assoluto e riconosciuto; l’intolleranza e la discriminazione sono universalmente condannati.

La nostra cultura cristiana, che accomuna anche gli atei o gli agnostici, è in assoluto apertissima, predicando e praticando amore, fraternità e tolleranza. La Chiesa Cattolica, tra tutte le confessioni a me note, è quella veramente più ecumenica, rivolta a tutti gli individui e rispettosa di ogni diversità.

Ma qui non è solamente una questione di linguaggio, ma di cultura occidentale. Nessun cattolico si indignerebbe per il Ramadan o per la celebrazione del Sabbath. Io il venerdì passo con molto rispetto e senza fastidio davanti all’affollata moschea di Roma. E se qualche sabato capito al Ghetto (si chiama così quella parte del rione Sant’Angelo attorno al Portico di Ottavia e non è una offesa) cerco un kippāh  in segno di rispetto.

Perché coi secoli i principali riti religiosi sono divenuti culture, modi di vivere.

Così noi non abbiamo solo il Natale, ma il Carnevale, la Pasqua, il Ferragosto, Ognissanti  (Halloween è la contrazione di All Hallows’ Eve, notte di Tutti i Santi): periodi dell’anno, festività, non solo feste religiose: conosciute da tutti, cristiani, atei, credenti di altra religione.

Come l’Immacolata Concezione, che non è solo il “ponte” festivo col quale si inaugura la stagione sciistica. Ma ha un contenuto ed un significato religioso così complesso nella sua semplicità, esaltazione della spiritualità della donna, senza negarne la sessualità esaltata proprio dalla maternità, che è incomprensibile a chi ragiona solo per slogan o per una società che ha così paura delle diversità o per le tante Immacolate – che siano esse uomini, donne o Lgbtq+ (vedete conosco la grammatica di oggi) – pronte ad indignarsi per qualsiasi cosa: esattamente come i bacchettoni bigotti dell’epoca passata si indignavano per il figlio di Mina, concepito fuori dal matrimonio, o per la Dama Bianca di Coppi.

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