giovedì, 25 Aprile, 2024
Considerazioni inattuali

Le voci del padrone

Se esiste qualcosa di più insopportabile dei cosiddetti servi del sistema – quelli, per intenderci, che come tradizione popolare insegna, sono “più realisti del re”: sempre in linea con la voce del padrone per dirla con Battiato – sono quelli che invece, del sistema o del padrone di turno dicono male perché autorizzati a farlo. Mi spiego meglio: i cani sciolti, ma solo per finta; coloro che in sostanza recitano la parte di ribelli Robespierre, per esercitare una sorta di operazione simpatia di regime ed orchestrare una maldestra (benché spesso incredibilmente fruttuosa) pantomima in cui servo e padrone fingono un rapporto di antagonismo agli occhi del popolo. Una assai meno divertente parodia della smorfia napoletana in cui i due compari per truffare il malcapitato, fingono di porsi l’uno contro l’altro.

 

SERVI DI UN ALTRO DIO

E quanti ce n’è oggi di finti Robin Hood, di figuri raccolti dagli ambienti più disparati: dalla cultura o – mai come adesso – dalla scienza, per portare avanti la voce dominante, tramite un meccanismo di “psicologia inversa”. Quelli che per esempio si schierano pubblicamente contro un partito per cui votano (apertamente o meno), per interpretare proprio quel ruolo: quello del bastian contrario. Perché (è ovvio) meglio costruirseli a tavolino gli avversari e selezionarli tra gli amici – che nei fatti dimostrino ubbidienza quanto e più dei solidali – che averne di effettivi. Se esistono i falsi amici d’altronde, perché non dovrebbe sussistere il corrispettivo discorde? Ecco allora fioccare – ma in effetti non sono poi tantissimi rispetto alla condizione antitetica – calcolatissimi e strategicissimi “falsi nemici”. Quelli che parlano a sfavore del regno solo alla moltitudine per poi operare fattivamente invece a suo vantaggio.

 

IL RIFIUTO DEL SENNO

La più grave delle conseguenze sta forse nel logorio interiore di chi nel corso della vita ha servito, senza mai essere davvero padrone di sé stesso e che da finto ribelle – lungi da me scadere nel moralismo – covi una quantità talmente consistente di odio, di disgusto verso sé ed il suo capo chinato, da sfociare all’esterno in una inarrestabile perdita di senno. Il raziocinio che il teatrante vorrebbe forse non esercitare, per non rendere conto a sé stesso del suo ruolo tanto esecrato, dirimente la sua natura. Poiché il primo servo del padrone, il capo di tutti gli altri suoi simili, è colui che più di tutti avrebbe aspirato a comandare, senza esservi mai riuscito: per quell’essenza meschina – incapace di grandezze in ogni senso – che gli è propria.

 

L’ODIO VERSO I LIBERI PENSANTI

Il malessere che ne deriva, l’arruffapopoli lo sfoga nell’idea di annientare chiunque possieda attitudine al comando, chi cioè assomigli al suo padrone. La totale assenza di conforto, di requie caratterizzante questo spirito sofferente, lo induce a quel “continuo agitarsi di una vita tumultuosa” che – scriveva Seneca – “non è sana operosità, bensì irrequietezza di una mente esaltata”; che odia come imperativo categorico e la cui principale forza motrice è l’invidia sociale, ma soprattutto l’invidia per chi abbia in sé quella dote – l’insormontabile ostacolo alla costruzione del suo regno, per cui astuzia e perfidia non bastano: l’indipendenza dello spirito. Attitudine dei forti, propria della serenità, che è causa fondativa dello stato di quiete interiore. Non a caso, per citare un esempio di grande ‘romanzo popolare’ (perché come dicono i napoletani e Machiavelli e prima di lui Tito Livio: “Voce ‘e popolo, voce ‘e Dio”) Suite francese di Iréne Némirovsky: “Ma allora, cos’è che ti conforta?” risponde “La certezza della mia libertà interiore. Questo bene prezioso, inalterabile, e che dipende solo da me perdere o conservare”.

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