mercoledì, 24 Aprile, 2024
Cronache marziane

Il qualunquismo e la negazione della politica

Quando gli amici de “La Discussione“ mi hanno domandato di avviare una rubrica quindicinale – che io ho inteso come un complemento agli ottimi interventi di Tommaso Marvasi, curante “Il Cittadino” –  attraverso cui commentare fatti di cronaca che comunque coinvolgano le dinamiche del potere, non potevano certo immaginare che avrei proposto loro di intitolarla all’opera maggiore di Ray Bradbury, anche perché la fantascienza sembra avere poco a che fare con le vicende del diritto pubblico di cui essenzialmente mi occupo.

Non potevano immaginarlo anche perché così non è, anche se così può sembrare fermandosi all’intitolazione, che ha addirittura la pretesa di essere ingannevole.

Proverò infatti a descrivere i più disparati episodi lungo i quali si svolge la dialettica fra autorità e libertà non ispirandomi all’opera dello Scrittore americano, ma a quella del  correntemente definito Oscar Wilde di casa nostra: Ennio Flaiano e alla sua farsa “Un marziano a Roma” (1954).

Possibile che un simile lavoro, datato 67 anni addietro, possa ancora esser preso a metro per valutare il mondo attuale? La mia risposta è purtroppo positiva e il lungo tempo trascorso fra la pubblicazione di quella farsa e il momento attuale mi porta anche a ritenere che potesse aver ragione Tomasi di Lampedusa quando fece dire  al Principe di Salina che “è necessario che tutto cambi, perché tutto resti come prima”.

Ecco dunque il racconto che vorrei porre alla base delle mie prossime  “cronache“ e la morale che ne deriva: a Roma, nei giardini di Villa borghese, atterra il marziano Kurt, subito accolto da una folla che vi riconosce prima una specie di Messia cui assegnare i ruoli più disparati e poi, via via, una figura sempre più simile a chi lo aveva accolto, tanto da non fare più notizia.

La banalità del marziano diviene alla fine del tutto esplicita in una Roma che lo inghiotte e lo smaltisce come farebbe con qualunque dei suoi troppi abitanti, che non sanno oramai più distinguere l’eccezionale dall’ovvio che oggi incontra chi – come me, giorno per giorno –  si deve confrontare con i titolari di poteri pubblici, siano essi agenti della riscossione, autorità sanitarie o giudici di uno dei tanti tribunali in cui si articola il Pianeta Giustizia.

Quel racconto ha d’altronde anticipato uno sguardo su Roma, che “La dolce vita” narrerà poco dopo per mettere in luce quel particolare giuoco allo straniamento che investe i suoi protagonisti (un giuoco non dissimile da quello che ritroveremo, oltre mezzo secolo dopo, ne “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino); proprio come sempre più estranei alle complicazioni istituzionali si rivelano i cittadini di fronte  alle carenze, agli eccessi e agli abusi dei poteri costituiti, rispetto ai quali l’unico mezzo di difesa che resta a disposizione di questi nuovi sudditi è quello di allontanarsi il più possibile dal perimetro entro il quale quei poteri dichiarano  – spesso senza convincere – di operare nel pubblico interesse.

Perché questo – mi pare – essere il principale problema dell’Italia di ieri, come dell’Italia di oggi: dopo lunghi secoli dedicati a frantumare i poteri pubblici in nome di una distinzione delle singole funzioni che tolga lo scettro al Principe, siamo lentamente tornati alla indistinzione di ruoli fra chi guida la macchina dell’obbedienza e chi ne reprime i piloti.

Se il primo complice di questo ritorno all’indistinzione è il potere legislativo in tutte le sue declinazioni, la causa della complicità è rinvenibile nei modi in cui le leggi elettorali fanno scegliere i titolari di quel potere, in tutte le sue declinazioni.

Trattasi anche di un potere che mal si distribuisce fra Governo e Parlamento, come fra Stato, Regioni ed Enti locali e da cui promana una congerie di regole di condotta che hanno per conseguenza quella di disorientare tanto coloro che quelle regole debbono osservare, quanto chi deve sanzionarne la mancata osservanza.

L’allegro e drammatico caos che ne deriva spingerebbe qualunque marziano a tornare verso il proprio luogo d’origine, proprio come spinge qualunque cittadino a preoccuparsi solamente di convivere con quel caos, non avendo la possibilità di salire su alcuna astronave che lo conduca in un nuovo universo.

 La parabola di Kurt appare dunque, in ultima analisi, quella stessa del qualunquismo come negazione della politica e non mi sembra casuale che i qualunquisti si manifestino come moltitudine ogni qualvolta le speranze di ritorno a metodi più democratici si riaffaccino al venir meno di ogni sistema politico che privilegi  l’autorità rispetto alla libertà degli individui.

È accaduto all’inizio degli anni 50 dello scorso secolo – dopo il Fascismo – con il movimento di Guglielmo Giannini ed è tornato ad accadere, nel secondo decennio dell’attuale – dopo la blindatura delle libertà costituzionali per effetto del terrorismo – con il movimento 5 Stelle (Uno vale uno, tutti uguali dunque; salvo scoprire, leggendo Orwell, che alcuni di loro diventano man mano più uguali degli altri).

Il qualunquismo, dunque, è sempre dietro l’angolo e le future “cronache” di quel rischio dovranno tenerne conto mentre raccontano fatti e fenomeni che ne possano esser causa o conseguenza, senza dimenticare l’insegnamento di quel Flaiano alla cui farsa quelle stesse cronache si ispirano e che ci dicono innanzitutto che “il nostro prossimo è troppo occupato con i propri delitti per accorgersi dei nostri!”.

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