giovedì, 25 Aprile, 2024
Manica Larga

Tu che sei diverso: quando società non rima con diversità 

Lui era un immigrato colombiano che aveva raggiunto l’America e la madre, che di lavoro faceva le pulizie. Queens, New York. Casa stretta, spazi angusti, quel tanto che basta per muoversi uno per volta tra il tinello, i fornelli, un frigo pieno zeppo di calamite, appunti in disordine e l’uscio di casa, da varcare ogni sera a piatto pronto per raggiungere la comunità degli immigrati illegali colombiani e dar loro da mangiare. 

“Vengo qui due volte al giorno,” dice uno. “Per fortuna che c’è lui altrimenti non saprei come fare”, aggiunge un altro. “Cercavo un futuro migliore, ma è davvero dura”, racconta un terzo. A mostrare questa storia è stato un documentario girato qualche anno fa dallo chef inglese Jamie Oliver per un format televisivo di successo trasmesso in replica qualche sera fa da una tv d’oltremanica. 

È una storia che si ripete con straordinaria puntualità. La condizione di emigrato o immigrato, dipende dai punti di vista, non è semplice da vivere né tantomeno da raccontare. Ma ha, nella stragrande maggioranza dei casi, un esito scontato. 

Al di là della retorica, infatti, in quanto esseri umani detestiamo rimanere da soli, da Aristotele al lockdown la narrativa non cambia, e nel farlo amiamo circondarci di chi consideriamo simile a noi perché ingenera un senso di autostima, hanno scoperto alcuni ricercatori. Tuttavia, questo dà il la a una serie di dinamiche che portano dritti all’esclusione sociale di chi è considerato diverso, soprattutto in momenti storici complessi come quelli che ci troviamo a vivere stretti tra una crisi economica mai risolta e una pandemia mondiale. 

Per questo motivo, costruire ponti non risulta affatto semplice né conveniente per il politico di turno che il conto finale lo fa nelle urne. Infatti, se già accogliere può essere visto come andare contro natura, farlo in momenti così difficilmente porta voti. E poi richiede tempo, troppo per una politica che va a caccia di like. 

A volte, cercare di costruire i ponti non aiuta neanche a salvare il proprio posto di lavoro. È, per esempio, notizia delle ultime ore che Red Bull, la nota azienda produttrice di bevande energetiche, abbia licenziato due dei massimi dirigenti americani colpevoli di aver fatto pressione per una maggiore diversità all’interno dell’azienda in seguito alle proteste del movimento “Black Lives Matter”. 

Eppure, la forza di una società in cui le differenze sono promosse, integrate e valorizzate, fa la differenza. Immaginate una società in cui centinaia di tribù si fronteggiano l’una con l’altra ciascuna per tutelare la propria identità. In poco tempo sarebbe l’apocalisse. La retorica del “piccolo mondo antico”, citando il Primo Ministro italiano, Giuseppe Conte, ha altrettanto pesanti controindicazioni. 

Insomma, si tratta di quella che viene definita una situazione “catch-22”, un vicolo cieco, che può essere risolto solo lavorando per una maggiore giustizia razziale e sociale. Forse ci sarebbe spazio per una società più aperta e veloce attraverso cui costruire un futuro a misura d’uomo che lasci spazio alla sperimentazione, all’assunzione di rischi, agli errori e quindi aperta all’innovazione, al futuro.

Il sentiero è lungo, purtroppo, talvolta stretto. Nel frattempo, da emigrato a mia volta, posso solo confermare che quello che metti in valigia, che sia fisica oppure no, ti servirà per restare a galla in un’infinità di momenti neri. 

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