sabato, 20 Aprile, 2024
Editoriale

E Feltri continua a insistere sull’inferiorità dei meridionali

Gli anziani, è un fenomeno acclarato, amano ripetere spesso le stesse cose e ancor più spesso diventano vittime di vere e proprie fisime. Si creano una loro verità e la ripetono all’infinito, diventa per loro un’ossessione. Una cantilena ripetitiva, che è come una droga mentale. Vittorio Feltri, nato nel 1943, si avvicina agli 80 anni. Una volta chi giungeva alla sua età veniva inserito di diritto nella categoria dei “vecchi”. Ma, fortunatamente, la vita degli italiani si è allungata e quindi, ancora per qualche anno, possiamo considerarlo un anziano. E come tutti gli anziani si è preso la fisima dell’inferiorità dei meridionali.

Non contento dello tsunami che ha provocato con quell’infelice intervento alla trasmissione dell’acquiescente Mario Giordano, durante il quale espresse chiaramente un giudizio che, dal contesto del ragionamento, non poteva non essere interpretato in maniera univoca, cioè che quella dei meridionali fosse una sorta di “razza inferiore”, essendosi beccato un deferimento al Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti, ritorna ora sistematicamente sull’argomento, cercando di dare una spiegazione “non razzista” a quella sciagurata affermazione. E la butta solo sull’aspetto economico, soffermandosi su alcuni passaggi che, oggettivamente, è difficile confutare.

Che differenze ci siano è purtroppo un dato di fatto. Ma Feltri, quella sera, non intendeva circoscrivere il giudizio al solo aspetto economico, è evidente. Non è questa la sede per tornare, poi, a spiegare a Feltri e ai suoi amici settentrionali, le ragioni storiche (trattamento post-unitario riservato alle popolazioni meridionali) che hanno portato alla creazione di questo gap. Andremmo fuori del seminato. Feltri si è irrigidito perché ha visto crollare, nel giro di tre mesi, il mito della Lombardia, della regione in cui è nato e vissuto, tutto imperniato sulla produttività, sul decisionismo, sulla operosità e sul primato nel campo della sanità.

Ed ha pure qualche ragione, visto che solo per fini chiaramente strumentali i radical chic della sinistra (con Marco Travaglio capofila) attaccano un’intera regione per colpire il suo governatore leghista. La Lombardia, dobbiamo ammetterlo se abbiamo serenità di giudizio ed onestà intellettuale, è stata attraversata da un ciclone che avrebbe sterminato qualsiasi organizzazione sanitaria del mondo. Con le sue attrezzature di avanguardia (dove ancor oggi vanno a curarsi migliaia di meridionali) ha persino retto l’urto. Ha persino Feltri quando dice che se la virulenza del coronavirus si fosse abbattuta sulle regioni meridionali, sarebbe stata una strage. Non parliamo della sanità della Campania, perché altrimenti De Luca si offende. Ma non era e non è certo un modello. Per non dire di quella calabrese.

Insomma se Sergio Gori, sindaco di Bergamo, ricorda come ad un certo punto i morti erano diventati più delle bare che aveva a disposizione, bisogna pur trarne la conseguenza che lì qualcosa di gigantesco, di improvviso e di repentino è avvenuto, sul quale, ferme restando le legittime aspettative dei parenti dei morti, appare ora quanto meno che si imbastiscano processi. E invece ci si è messa di mezzo anche la magistratura, che indaga a tutto campo, per cercare responsabilità, del governo e degli amministratori locali, che ai nostri occhi di osservatori, appaiono oggettivamente fumose. In quelle ore drammatiche, quando i malati in fin di vita erano dieci volte in numero superiore rispetto ai posti letto dei pur attrezzati ospedali lombardi, era davvero impossibile pensare ad un presidente del Consiglio, a un ministro o a un governatore, che potessero determinarsi con la serenità di tutti i giorni normali, non scanditi dalla pandemia.

Vedrete, ne nascerà magari un processo con imputato un “fenomeno” (come dice Carofiglio) e non singoli atti penalmente rilevanti attribuibili ad una persona fisica ben determinata. Finirà in una bolla di sapone, com’è finito quello agli scienziati che non avevano sufficientemente allarmato la popolazione dell’Aquila prima del terremoto che la devastò. Un processo assurdo costato milioni alla collettività con i suoi tre gradi di giudizio e che diede un altro terribile colpo alla legittimazione della magistratura italiana.

Al di là di questi aspetti non secondari, che solo in parte attenuano l’incontrollato delirio feltriano, c’è da riferire che è stato proprio il giornalista con l’ultimo fondo apparso in queste ore su Libero a suggerirci lo spunto per queste riflessioni che vi stiamo proponendo. Vi riportiamo i passi salienti che confermano l’idea di un “pentito” che cerca disperatamente di mettere la “pezza a colore” e che finisce, contraddicendosi, per confermare la sua pazza idea di subalternità antropologica.

“Un paio di mesi orsono, forse meno, – scrive Feltri – ero ospite del programma televisivo «Fuori dal coro» condotto dall’ottimo Mario Giordano. Alle sette di sera registrai una intervista su temi di attualità. Il Governatore della Campania, il simpaticissimo De Luca, aveva da poco dichiarato l’intenzione di chiudere i confini della sua regione. Cosa saggia. Chiamato a commentarla, mi chiesi se tale chiusura fosse solo in entrata o anche in uscita. Precisando comunque che a me non importava trasferirmi a Napoli per lavoro, visto che non avevo e non ho intenzione di fare il posteggiatore abusivo, aggiunsi che il capoluogo vesuviano è abitato anche da gente che non soffre di alcun complesso di inferiorità, ma è inferiore. Il giudizio non era di tipo antropologico, dato che perfino io so che Benedetto Croce non è nato a Cuneo e che Gabriele D’Annunzio non è venuto al mondo a Sondrio. In discussione dunque non erano né potevano essere le virtù intellettuali dei meridionali, bensì il loro livello economico, sociale e civile”.

Ecco, si tradisce con “sociale e civile”. Per Feltri noi siamo tutti asociali e incivili. Il lupo non perde il vizio. E non solo, commette anche qualche errore storico-geografico che da lui non ce lo saremmo aspettato. Perché è vero che Benedetto Croce non è nato a Cuneo, ma è nato a Pescasseroli, in Abruzzo, bellissima cittadina che si trova sulla stessa latitudine di Roma e poi si è trasferito a Napoli, dove ha vissuto e splendidamente operato.

Ancor più singolare è poi il richiamo a Gabriele D’Annunzio, che è vero che non è venuto al mondo a Sondrio, ma che è nato a Pescara, città che si trova alla stessa latitudine di Viterbo, Rieti e del Sud dell’Umbria e che quindi proprio meridionale non può considerarsi. A Napoli D’Annunzio ha vissuto di passaggio solo un paio di anni, per sfuggire ai creditori e collaborando proficuamente al Corriere di Napoli e al Mattino con il duo Scarfoglio-Serao. Ma niente più. Pensare a lui come ad un meridionale è davvero azzardato, visto che, abbandonata Pescara in giovanissima età, visse poi tra la Toscana, Roma, Parigi, Fiume e Gardone Riviera. Nulla volendo togliere a Croce e D’Annunzio, non sarebbero certo mancati a Feltri riferimenti a grandi uomini del Sud che hanno onorato il Paese. Ma tant’è. La geografia ormai la si studia poco, i giovani a stento localizzano regioni e nazioni. Basti pensare al solito Di Maio che proprio in queste ore ha scambiato la Slovenia con la Grecia. Con la differenza, però, che ai tempi di Feltri, già dalle elementari tutti sapevano esattamente dove fossero collocate, in Italia, Pescasseroli e Pescara.

A meno che Feltri non abbia fatto un altro ragionamento, facendo riferimento ad un fatto storico antico, non abbia cioè tratto conseguenze geo-politiche da quel celebre “alea iacta est” pronunciato da Cesare, quando fu costretto a varcare il Rubicone per tornare a Roma, dove Pompeo, in sua assenza perché impegnato a guerreggiare per Roma, ne aveva fatte di tutti i colori. Ecco, forse Feltri immagina che tutti i cittadini italiani abitanti al di sotto del Rubicone siano meridionali, economicamente inferiori, asociali e incivili.

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