domenica, 12 Maggio, 2024
Attualità

Conversazione con Lorenzo Infantino

A proposito di Friedrich A. von Hayek

La teoria liberale della società non è nata in Italia, né ha mai messo solide radici nel nostro paese. Proprio per tale ragione, è sovente oggetto di fraintendimenti e distorsioni, che la fanno apparire per quello che non è.

Il bersaglio preferito degli antiliberali di tutte le latitudini è molto spesso Friedrich A. von Hayek, il massimo studioso di orientamento liberale del Ventesimo secolo. Ne parliamo con Lorenzo Infantino, professore di Filosofia delle Scienze Sociali alla LUISS, il quale ha curato l’edizione italiana di molte delle opere di Hayek (da ultimo, Conoscenza e processo sociale, Rubbettino Editore) e che è egli stesso uno dei maggiori conoscitori, a livello internazionale, della teoria liberale.

Quale contributo può oggi darci la lettura di Hayek nella difesa dei sistemi democratici? O, se vuole, in che cosa consiste l’attualità del pensiero di Hayek?
Hayek ha negli anni sviluppato un’ampia teoria della società. Il suo maggiore merito è stato quello di avere rivisitato il liberalismo classico e di averci fornito, dopo due guerre mondiali e l’affermazione del totalitarismo, variamente articolato, gli strumenti per difendere la libertà individuale di scelta. Anche se inizialmente noto per quanto fatto nell’ambito della scienza economica, egli si è occupato di psicologia teorica, di teoria della conoscenza e di filosofia politica. Attraverso un lavoro minuzioso e continuo, che si è prolungato per diversi decenni, ha individuato le condizioni che consentono alla libertà di non essere una vuota declamazione, ma un assetto istituzionale, in cui ciascuno può pacificamente cooperare con l’altro, mobilitare le proprie conoscenze e le proprie risorse, senza doversi assoggettare a una gerarchia obbligatoria di fini.

Può dirci qualcosa di più?
Il problema prioritario della vita sociale è come rendere reciprocamente compatibili le azioni degli esseri umani. Fin dalle origini, il liberalismo ha voltato le spalle alla credenza che ciò sia compito di particolari soggetti o gruppi, dotati di una conoscenza privilegiata. E si è affidato al «governo della legge». Ciò significa che la delimitazione dei confini fra le azioni non viene imposta da un’autorità superiore, che detta i contenuti della vita di ciascuno. È determinata dalla norma giuridica, che non prescrive alcun obbligo, se non quello di non arrecare danno al prossimo. Hayek ha insistentemente gettato luce sul significato del «governo della legge». Ci ha fatto comprendere che la libertà individuale di scelta, prim’ancora che un concetto politico, è un concetto giuridico.

Il nome di Hayek viene tuttavia associato al «neoliberismo» inteso come concezione sfrenata della vita sociale, come cioè ricerca cieca del profitto, senza alcuna considerazione per le conseguenze sociali. Tale associazione è possibile?
Già il termine «liberismo», introdotto spregiativamente alla fine dell’Ottocento, ci pone su un’erronea direzione di marcia. La parola non ha equivalenti nelle altre lingue. Se con «liberismo» o «neoliberismo» intendiamo riferirci alla scelta individuale nell’utilizzo delle risorse, dobbiamo rassegnarci a comprendere che, senza di questa, nessuna libertà è possibile. Fin da Platone, tutti coloro che hanno avversato la libertà hanno reclamato la soppressione della proprietà privata o la sua «neutralizzazione», attraverso un complesso sistema di limitazioni e di controlli. Ma c’è di più. Poiché la mobilitazione delle risorse è il portato della mobilitazione delle conoscenze, impedire la prima equivale a impedire anche la seconda. Viene in tal modo reso impossibile o manomesso il libero svolgimento del processo sociale, che è nello stesso tempo un processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori. La conseguenza di ciò è un’ovvia caduta della produttività e del nostro benessere.

Piketty include Hayek fra i rappresentanti di una concezione censitaria della democrazia, parla di un «complotto ordoliberale e proprietarista coerente e invincibile» e allude a molto altro. Che dire?
Piketty attribuisce a Hayek la responsabilità di molte cose. Ma non confronta le idee e non esamina le conseguenze. Con uno stile che appartiene più ai «mestieranti della politica» (Weber) che agli studiosi, colloca Hayek fra coloro che addirittura colpevolizzano la povertà. Per comprendere Piketty, bisogna ricorrere a George Orwell, il quale ci ha fornito, con riferimento all’universo totalitario, il concetto di «neolingua». Nel nuovo linguaggio, la guerra sta per pace, la libertà per schiavitù, e via dicendo. Ecco, quando attacca il lavoro svolto da Hayek sul «governo della legge», Piketty utilizza una neolingua, in cui la libertà individuale di scelta, resa possibile dal diritto, diviene schiavitù. Quanto poi all’accusa di essere stato negli anni di Chicago un sostenitore della dittatura di Pinochet, basti dire che Hayek è rientrato in Europa molto tempo prima di quella vicenda e che, dopo quegli avvenimenti, a cui è stato totalmente estraneo, gli è stato conferito Premio Nobel. Cosa che gli sarebbe stata preclusa da un suo eventuale coinvolgimento, sia pure ideale.

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