sabato, 4 Maggio, 2024
Società

Il bavaglio e la gogna, atto secondo

Sbagliato fare pressioni sul Quirinale

L’ultima settimana dell’anno si conclude con un’imprevista dilatazione del dibattito sul divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, introdotto per tutelare i diritti fondamentali dell’indagato e la trasparenza della giustizia: dilatazione amplificata da fatti di cronaca miracolosamente verificatisi e diffusi al momento giusto, con l’evidente obiettivo di restaurare il clima che, trent’anni or sono, diede luogo all’avvio dell’infelice stagione di “Mani Pulite”, le cui negative conseguenze sul piano dei rapporti fra Politica e Magistratura sembrano ancora ben lungi dal raggiungere tutt’ora un minimo punto di equilibrio.

Ci si vorrà però almeno concedere come sia alquanto singolare che un divieto che non incide minimamente sui poteri cautelari delle Procure, riguardando esclusivamente i loro rapporti con la stampa, abbia fatto insorgere i titolari di quegli uffici fino al punto da spingere alcuni di loro a dichiarare espressamente che non avrebbero osservato quel divieto.

Quanto sta accadendo suggerisce una prima riflessione: l’obbligatorietà dell’azione penale trova un limite invalicabile nei comportamenti di coloro che se ne fanno paladini, a condizione di non dover procedere nei confronti di colleghi che ritengano di poter impunemente violare una legge dello Stato.

Anche per questa fattispecie però è stata trovata una giustificazione, consistente nel fatto che i procuratori potrebbero disapplicare quella legge perché non la ritengono conforme alla Costituzione.

In proposito, sono stati ben pochi quelli che hanno osservato come – nel nostro sistema a Costituzione rigida – ogni decisione in ordine alla legittimità di una qualunque disposizione di legge non è rimessa alla discrezionalità del singolo magistrato che dovrebbe applicarla, bensì alla giurisdizione della sola Corte Costituzionale cui egli dovrebbe rivolgersi, sollevando d’ufficio la questione che ritiene invece di poter liberamente decidere da solo.

Vale dunque la pena di richiamare almeno i principi costituzionali coinvolti in questa polemica, come il diritto alla privacy (Articolo 15), la libertà di espressione e di stampa (Articolo 21), e il diritto ad un giusto processo (Articolo 111).

Un pacato richiamo a quei principi, unito all’analisi dei precedenti giurisprudenziali della Corte costituzionale italiana e delle Corti europee (Strasburgo e Lussemburgo), potrebbe aiutare allora a meglio comprendere come il divieto in questione sia difficilmente qualificabile come non conforme al diritto nazionale o a quello eurounitario.

Chi afferma il contrario sembra dimenticare come, in questa materia, sia necessaria un’ opera di bilanciamento, che – secondo l’insegnamento della Corte costituzionale – spetta esclusivamente al legislatore, (v. sentenze n. 25 del 1965 e n.18 del 1981), anche se l’esperienza ci ha insegnato come il peso delle opinioni espresse dai magistrati tenti di imporsi anche rispetto alle scelte del Parlamento in materia.

Una simile opera richiederebbe invece soluzioni equilibrate che contemperino le diverse esigenze, mentre sarebbe sbagliato coltivare la polemica – come in questi giorni sta avvenendo – nel nome della prevalenza indiscriminata dell’uno piuttosto che dell’altro interesse contrap­posto, sostanzialmente denegando la possibilità, per il Legislatore, di disciplinare la materia della diffusione delle misure cautelari adottate nel corso di indagini penali.

Nel pieno della polemica, non potevano poi mancare gli inviti al Presidente della Repubblica perchè non firmi la legge che reca il divieto in oggetto; ma chi tira per la giacchetta il Capo dello Stato non si rende probabilmente conto dell’autogol che si appresta a commettere, perchè la mancata apposizione della firma comporterebbe inevitabilmente il rinvio della Legge alle Camere con un messaggio che queste ultime potrebbero anche respingere, rinnovando l’approvazione della disposizione rinviata: a quel punto il Capo dello Stato sarebbe inevitabilmente costretto a firmare, con inevitabili conseguenze sul prestigio dell’istituzione da Lui rappresentata.

Speriamo che non si voglia giungere a tanto!

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