Il Centro di ricerca scientifica Enea ha pubblicato sulla rivista internazionale ‘Water’ un recente studio effettuato in laboratorio sull’inquinamento da microplastiche. Nello studio gli esperti Enea hanno analizzato il percorso dei minuscoli pezzi di plastica ‘dall’acqua al piatto’ e compreso come questo contaminante si inserisca nella catena alimentare. L’analisi del team di ricercatori, coordinato dalla biologa Valentina Iannilli insieme all’Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri, ha riguardato la valutazione degli effetti di microparticelle di polietilene (PE), materiale di uso quotidiano più diffuso e tra le più comuni materie plastiche disperse nell’ambiente.
La sperimentazione
Per la sperimentazione sono state utilizzate la Spirodela polyrhiza, una piccola pianta acquatica galleggiante e l’Echinogammarus veneris, un crostaceo d’acqua dolce simile a un gamberetto, che tra l’altro è l’alimento base di pesci come le trote. Le piantine sono state dunque immerse in acqua contaminata da microplastiche di circa 50 micrometri (più piccole del diametro di un capello) e dopo 24 ore sono state trasferite nella vasca dei crostacei. I risultati hanno mostrato che le piante, durante l’esposizione, oltre a una lieve riduzione del contenuto di clorofilla, hanno accumulato un elevato quantitativo di microplastiche sulle radici di cui i crostacei si cibano, ingerendone in media circa 8 particelle per esemplare. Inoltre, è stato possibile anche sperimentare come le microplastiche, una volta ingerite dai crostacei, vengano sminuzzate e “restituite” all’ambiente sotto forma di escrementi, che possono rientrare nella catena alimentare, cosiddetta “del detrito”, in maniera potenzialmente più pericolosa di quella di partenza.
Le ‘PE’ all’interno della catena alimentare
A riguardo Valentina Iannilli ha spiegato: “Questo studio mostra chiaramente, all’interno di un sistema controllato di laboratorio, i meccanismi attraverso i quali le microparticelle di polietilene entrano e si trasferiscono all’interno della catena alimentare. Le piantine, infatti, hanno avuto il ruolo di raccogliere e trasferire queste particelle ai crostacei, fonte di cibo per i pesci che a loro volta accumulano microplastiche anche nei muscoli che sono poi le parti che noi mangiamo”. Inoltre, sono stati valutati gli effetti diretti delle microplastiche sul DNA dei crostacei per comprendere se queste particelle potessero indurre danni a livello del materiale genetico; dopo solo 24 ore è stato possibile osservare come gli esemplari “trattati” con le microplastiche presentino un livello di frammentazione del DNA significativamente superiore rispetto a quelli non trattati, dimostrando come queste particelle siano effettivamente in grado di danneggiare i geni degli organismi studiati.
La pericolosità del rilascio delle microplastiche
A seguito dell’esperimento, Valentina Iannilli nell’evidenziare le potenziali pericolosità per l’ambiente ha asserito: “Questo significa che le microplastiche non sono, come spesso è riportato, materiale inerte che non interagisce con le funzioni degli organismi, ma che invece si ‘muovono’ lungo la catena alimentare con effetti diretti anche sull’integrità del patrimonio genetico e di conseguenza potenziali a lungo termine su popolazioni, comunità e interi ecosistemi. Un risultato che deve far riflettere sulla pericolosità del rilascio nell’ambiente di queste particelle microscopiche derivate dalle attività antropiche, anche in considerazione della loro diffusione in tutte le matrici ambientali quali acqua, suolo, aria, ghiacci dell’Artico fino ai sistemi agricoli”.