sabato, 27 Aprile, 2024
Società

“Gender gap. L’Italia perde 16 posizioni”

Intervista ad Anna Maria Ponzellini sul Nobel per l'economia a Claudia Goldin

Il gender gap è ancora una realtà, anche nei Paesi occidentali che, per legge e per cultura, professano l’assoluta parità tra uomini e donne. Il 9 ottobre 2023 è stata insignita del premio per le Scienze economiche in memoria di Alfred Nobel l’economista statunitense Claudia Goldin, che ha condotto per lunghi anni indagini sulle differenze tra uomini e donne in termini di partecipazione al mercato del lavoro e di retribuzioni. Un’assegnazione che ha colpito per l’interesse dimostrato dall’Accademia svedese verso un tema fino ad oggi poco affrontato, ma che nel nostro Paese, invece, è molto sentito dalle donne. Per questo abbiamo chiesto un commento alla sociologa del lavoro Anna Maria Ponzellini.

Questo Premio Nobel è sembrato davvero un bel segnale, non trova?
Beh, certo, mi sembra molto importante. Tra l’altro la Goldin arriva terza dopo solo altre due donne, tutte che si sono occupate di political economy: una si è occupata di beni pubblici, l’altra di disuguaglianze e la Golding che parla di disuguaglianza di genere, quindi direi che sono temi che dicono qualche cosa sulle attuali preferenze, sulle donne, sul sociale con un’attenzione, appunto, non tanto ai modelli economici, quanto alle pratiche politiche e questo va bene. Questo cambiamento di visione io lo attribuisco alle donne, alla loro resistenza e alla loro visione del mondo del lavoro che punta più sul valore della persona e sulle relazioni, che non sulla produzione e redditività in senso stretto. Ci conferma qualcosa che già sappiamo delle donne, c’è da esserne contenti.

L’Accademia dice che capire che il gender gap esiste è un primo passo, ma capire perché esiste e quello che realmente mette la politica in condizioni di cambiare le cose. Il punto è che noi in Italia in realtà stiamo andando indietro, abbiamo perso altre 16 posizioni secondo l’ultimo bilancio sul gender gap dell’Economic World Forum. Evidentemente rimuovere le cause da noi è davvero difficile. Secondo lei le nostre istituzioni si stanno muovendo nella direzione indicata dall’Accademia?
Da osservatrice mi dispiace che le istituzioni italiane non siano in prima linea su questo tema, ma sono più interessata a capire cosa stia succedendo nel mondo del lavoro, così come nelle relazioni sociali, nel cambiamento delle culture. A me sembra che la consapevolezza delle donne e anche del resto della società su questi temi stia crescendo. Se andiamo a vedere una serie di indicatori, sicuramente altri Paesi sono più veloci di noi nel creare politiche attive, ma la società sta comunque andando avanti. Il cambiamento c’è, nonostante che da noi un gap sia ancora ben visibile. Noi siamo messi particolarmente male dal punto di vista della partecipazione al mercato del lavoro, perché abbiamo un Tasso di partecipazione da parte delle donne molto basso. In questo momento abbiamo un 30% di disavanzo rispetto a quella di dei maschi. Anche se bisogna dire che si parla di un tasso ufficiale, mentre da sempre nell’occupazione femminile una componente molto ampia, soprattutto al Sud, ma non solo, lavora in nero. Quindi, la stima forse andrebbe in qualche modo rivista al rialzo.

In cosa noi donne siamo particolarmente penalizzate?
I ranking internazionali, per esempio, non ci danno per collocati bene nel divario retributivo. Da sempre la nostra legge stabilisce che i salari delle donne e degli uomini debbano essere uguali, Infatti, i salari contrattuali sono uguali, ma poi nei fatti non è così vero, il gender pay gap esiste L’altro fronte è quello delle opportunità di carriera. Diciamo che la disuguaglianza persiste, però diciamo anche che dal mio punto di vista sono stati introdotti grandi cambiamenti.

Lei vede dei cambiamenti, lenti ma positivi. Cosa ha aiutato le donne in questo cammino di consapevolezza?
Mi sembra che la Goldin sia molto precisa nell’individuare storicamente quali siano i fattori che hanno aiutato le donne. Lei, per esempio, tra gli elementi che hanno cambiato dal dopoguerra la partecipazione delle donne al mercato del lavoro mette ai primi posti la pillola anticoncezionale e quindi un modo diverso di pianificare il rapporto tra lavoro e fecondità. Insieme a questo, ovviamente, l’investimento nell’educazione, io su questo concordo molto. Poi a me sembra di vedere anche altre cose, nel senso che, per esempio, le tecnologie stanno aiutando l’occupazione femminile quando tutti e tutte dicevano che avrebbero favorito gli uomini sul piano della competitività. Invece, stiamo assistendo al contrario, perché i margini di libertà che ci sono adesso con lo smart working, ma non solo, danno la possibilità a molte più donne di lavorare, soprattutto nelle professioni qualificate.

Quali sono i punti di forza delle donne?
Secondo me una certa propensione a vivere il lavoro in modo diverso dagli uomini. Le donne non l’hanno mai visto al centro. Da questo punto di vista è chiaro che sono meno competitive dei maschi, ma a me sembra che questa visione si stia imponendo. Il lavoro si sta qualificando, ormai si è visto che le competenze diciamo tra virgolette tradizionalmente femminili sono anche quelle più premiate nel mercato del lavoro.

Quali in particolare?
La capacità di gestire e di tenere conto delle persone, secondo il nuovo modo concepire il lavoro. Molti economisti e sociologi lo vedono come un insieme di relazioni più che un insieme di produzioni manuali, fisiche, di un qualche cosa. Secondo me le donne stanno dando un grandissimo contributo in questo senso. La realtà si muove lentamente, sono d’accordo, però mi fa piacere che stiamo osservando i fenomeni, come ha fatto la Goldin, da una prospettiva storica, che è una bella lente per vedere le variabili che giocano sul cambiamento, come il concetto di genitorialità. Indubbiamente, se le donne non avessero figli o se non volessero occuparsene avrebbero una condizione di maggiore competitività sul mercato del lavoro, però, scegliendo forme di flessibilità, come il part time o il lavoro a domicilio, hanno anche indicato una nuova strada a tutti, anche agli uomini.

Lei, però, negli esempi che mi ha fatto, ha parlato di pillola o di lavori da casa, mi sembra che le donne per essere più competitive e meglio proiettate nel mercato del lavoro debbano rinunciare sempre a qualcosa, no?
Al contrario. La Goldin, analizzando i due principali elementi del cambiamento dal dopoguerra a oggi, la pillola e l’investimento formativo delle donne, ha stabilito che quando le donne sono diventate più capaci di controllare le nascite, sono riuscite a partecipare di più al mercato del lavoro. Si sta premiando la resistenza delle donne nell’affermare il proprio modello vita e di società, che in qualche modo hanno trasferito nel lavoro, anche a costo di lavorare in settori meno premianti dal punto di vista salariale. Pensiamo al settore dei servizi o agli orari e posizioni di lavoro più fragili, però mantenendo la propria integrità e convinzione. E questo modello, che nel lavoro si traduce in maggiore flessibilità, anche positiva, è il modello che sta andando avanti ed è, anche, il modello privilegiato dai giovani della generazione Z, che non vogliono più che il lavoro sia al centro della propria vita. In questo senso mi preoccupo un po’ meno del gender gap misurato in termini di parità, perché mi sembra una conquista, invece, l’aver mantenuto la differenza.

In un suo libro la Goldin ha introdotto il concetto di “lavoro avido”, un tipo di lavoro che paga di più chi lavora per più ore o nel fine settimana e prevede che il dipendente sia sempre disponibile, il che taglia fuori le donne che normalmente si occupano della casa, dei figli, dei compagni. Come a dire che per risolvere il problema dovremmo essere meno avidi e più equilibrati. È possibile introdurre un ragionamento “etico” in un contesto economico o è una chimera?
Questo è un modello più americano. Penso che la Goldin voglia significare che la disponibilità di tempo è sempre stato un vantaggio enorme per gli uomini. Anche noi l’abbiamo visto, soprattutto nei decenni passati, quando gli straordinari e il restare a lungo in ufficio era un atteggiamento diffuso tra gli uomini che si attardavano a chiacchierare con il capo mentre le donne staccavano all’orario preciso. Adesso, però, mi sembra che sia un po’ mutata questa cultura. E per quanto riguarda l’etica, l’economia deve essere etica. Il lavoro è di fatto qualche cosa di un po’ divorante nei confronti delle persone. Che poi questo metta in difficoltà più le donne che gli uomini è evidente, perché le donne, appunto, vogliono difendere degli spazi fuori dal lavoro.

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